Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Sulla Puglia l’ombra dei grandi negoziati

La biodiversità vegetale autoctona del grano duro pugliese rischia l’estinzione. L’intera filiera potrebbe crollare sotto il peso di una globalizzazione e deregolamentazione dei mercati internazionali senza etica né regole.

La Puglia non è solo la prima esportatrice di grano duro. È anche la prima importatrice. Infatti, da qualche anno, nei porti pugliesi approda oltre il 70 per cento del grano importato in Italia. Destinato, per la stragrande maggioranza, alle aziende molitorie italiane. Un vero e proprio dumping speculativo ad opera delle multinazionali – ad integrazione verticale e orizzontale – della filiera dell’agroalimentare. A danno dei coltivatori pugliesi. Il risultato è che quest’anno il prezzo al quintale del grano duro, oscillante tra 16 e 18 euro – addirittura inferiore a quello del grano tenero -, ha raggiunto i minimi storici.

LUNGO LE ROTTE DEL GRANO
Le navi che attraccano nei porti pugliesi trasportano grano prodotto negli Stati Uniti e in Canada. Paesi in cui gli aiuti di Stato alla produzione – come la “Green Box” americana – rendono questo prodotto altamente concorrenziale rispetto al grano nostrano. Tra le varietà alcune provengono dai Paesi in via di sviluppo, dove il basso costo del lavoro – così come l’uso non sostenibile dell’ambiente e delle risorse non riproducibili – hanno l’effetto di annientare l’agricoltura di sussistenza delle popolazioni autoctone, provocando impoverimento del suolo, siccità, carestie, miseria e conseguenti flussi migratori a cui assistiamo in questi ultimi anni.
Ma gli effetti negativi di questo fenomeno, non si fermano solo all’azione speculativa, favorita dalla mancanza di controlli e concretizzata con l’arrivo di ingenti quantità di grano estero di dubbia provenienza. Comportano altresì un aumento dell’offerta e la conseguente diminuzione dei prezzi che si riverberano sull’intero comparto cerealicolo. E i nostri agricoltori, “strozzati” dal mercato, sono costretti ad abbandonare la coltivazione del cereale o, peggio, ad adottare metodi di coltivazione poco rispettosi dell’ambiente. Oppure, pur di comprimere qualche fattore della produzione per essere competitivi, alcuni ricorrono al caporalato e alle varie forme di lavoro nero. Comprimendo, in tal senso, ogni forma di garanzia del lavoratore.

L’OMBRA DEI GRANDI NEGOZIATI
I grani provenienti dal Nord America, spesso, sono coltivati e conservati con metodi che non rispettano i protocolli europei nell’ambito della sanità e della sicurezza alimentare. Quel “principio di precauzione” oggetto di diatribe tra Europa e Usa proprio nell’ambito dei negoziati TTIP, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti. Così come tra Unione europea e Canada avviene nell’ambito del CETA, l’Accordo economico e commerciale globale. Nei paesi del Nord America sono ammessi, infatti, trattamenti chimici in fase vegetativa di pre-raccolta delle colture. Una pratica agronomica assolutamente vietata in Italia, nell’ottica di tutelare la salute del consumatore. La varietà Manitoba, in particolare, è caratterizzata da un elevato contenuto di glutine. Che può provocare, in soggetti particolarmente predisposti, l’infiammazione cronica dell’intestino tenue, meglio conosciuta come “falsa celiachia”.

IL CASO GLIFOSATO
I prodotti di importazione presentano funghi pericolosi per la salute umana e micotossine. Ma il caso più emblematico è quello del glifosato, un diserbante a marchio registrato della Monsanto Company. È un composto amminofosforico delle glicine che, agendo nelle piante per assorbimento fogliare e traslocazione floematica, inibisce l’enzima EPSP sintasi in modo non selettivo verso la biodiversità vegetale. Inquinando suolo, aria, le acque superficiali e profonde.
Secondo gli studi condotti dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), il glifosato potrebbe essere responsabile dell’insorgenza di particolari linfomi. Anche se qualche mese fa l’Efsa, l’agenzia europea per la sicurezza alimentare, ha dichiarato il p.a. diserbante “probabilmente non cancerogeno”, sulla base di dati forniti dalle stesse multinazionali produttrici. Che tentano di aggirare i divieti europei che negano la possibilità di utilizzo di questo diserbante nei parchi pubblici e, soprattutto, nelle fasi di pre-raccolta.

IL G7 DI BARI
Tra l’11 e il 13 maggio scorso si è svolto a Bari il G7. Nel corso del vertice tra i ministri delle Finanze delle sette nazioni più industrializzate, nessuno ha speso una parola su questi temi. Neppure gli ambienti antagonisti allo stesso vertice. Eppure, proprio il territorio pugliese subisce per primo gli effetti nefasti delle decisioni globali. Persino sul grano duro. Condannando i piccoli coltivatori a sopportare il costo di un prezzo spinto costantemente al ribasso. Per le brame di profitto di pochi individui.

C’ERA UNA VOLTA IL GRANAIO D’ITALIA
Granaio d’Italia. Così veniva chiamato il Tavoliere delle Puglie per le sue produzioni di grano duro. Una distesa di colore giallo oro che ogni estate si perdeva a vista d’occhio all’orizzonte. Dalla Capitanata, in provincia di Foggia, fino agli altipiani dell’Alta Murgia barese. Furono gli arabi a introdurre nel Sud Italia la coltivazione del grano duro, o Triticum durum. Da questa ottima varietà di frumento realizzavano il semolino utilizzato per il cous cous, piatto principe della cucina del Nord Africa. Da questa eredità musulmana, patrimonio del Sud Italia, durante l’età volgare si è cominciato a produrre la pasta. Che ancora oggi costituisce una delle eccellenze gastronomiche italiane più conosciute e apprezzate al mondo. Un prodotto ottenuto dall’interazione, costante nel tempo, tra le proprietà del suolo e del clima. E con quei saperi tramandati dalle pratiche agronomiche dei laboriosi contadini pugliesi, uniti al patrimonio genetico eccezionale di questa varietà di cereale.

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