Fuoricampo è un diario pensato per dar voce agli invisibili. Un viaggio a puntate alla scoperta delle storie dei nuovi schiavi, dei nuovi emarginati d’Italia. A parlare sarà la realtà. Nessuna costruzione, nessun archetipo. Come Caronte, Ibrahim – un ragazzo senegalese, uguale a tanti altri, che vive nel ghetto Chitomeni, uno dei tanti del Sud Italia – ci traghetterà nell’Inferno di una quotidianità che non ci appartiene. Perché solo quando l’intangibile si può toccare, diviene reale. E solo raccontando queste storie i loro protagonisti potranno finalmente avere un volto, un nome e una voce. Un grido di speranza che raggiunga le coscienze, fuori dal campo.
Lamiere inchiodate su travi / conficcate nel terreno / fanno la casa
Gli stracci completano / l’intimo paesaggio
Il sole penetrando le fessure / sveglia il suo abitante
Dopo dodici ore di lavoro / da schiavo
Spaccar pietre / portar pietre / spaccar pietre
Portar pietre / col sole / sotto la pioggia
Spaccar pietre / portar pietre
La vecchiaia fa presto ad arrivare
Una stuoia nelle scure notti / gli basta per morire / riconoscente
e di fame.
(“Civiltà Occidentale” di Antonio Agostinho Neto, Angola)
PROLOGO
Sono entrata nel ghetto per la prima volta nel gennaio scorso. Ricordo con chiarezza il freddo tagliente e il vento che accarezzava gelido le baracche in cemento o lamiera. Poi le reti, arrugginite dal tempo e dall’indifferenza, innalzate per dividere questi esseri dal resto dell’umanità. Andare al di là della barriera, superare i confini della baraccopoli per entrare nell’altro mondo, è possibile. Accade quasi ogni giorno, secondo la stagione, quando questa manovalanza d’importazione trova impiego.
“Se sono libero, rispondo, quando sono occupato, ti dico sono occupato. Capito? Adesso io forse no lavoro perché c’è freddo, capo chiama me e dice: no lavoro Ibrahim, adesso no lavoro. E allora io resta. Quindi sono libero.”
Ibrahim era il mio passe-partout per entrare nel ghetto, il riferimento per non avere problemi durante la permanenza. Il suo recapito mi era stato passato dai medici volontari che ancora oggi, quando è possibile, prestano cure gratuite a quelle anime senza assistenza.
“Ibrahim è un po’ il capetto dell’area senegalese del ghetto”, mi aveva avvertita Simone, uno dei volontari, quando gli avevo chiesto di entrare nella baraccopoli. “Ma con lui vai facile, non ti preoccupa’. Deve capire che di te si può fidare, altrimenti non ti dice niente. Ibrahim ha due palle sotto enormi”, aveva aggiunto in gergo, abbandonando quella sua aria forzatamente compassata.
Una volta entrata nel ghetto ho visto un gigante buono. Alto, snello, sarebbe potuto sembrare un ragazzo come tanti lì dentro. La fermezza del passo nell’incedere, il portamento fiero ed estremamente eretto, però, raccontavano qualcosa in più. La sicurezza, in qualche modo, Ibrahim se l’era conquistata. Ma con quel naso, forse, avrebbe potuto sfidare qualsiasi cosa. È la prima cosa che mi ha colpita di lui, in effetti. Ha un naso largo, irregolare, con narici che sembra vogliano aprirsi verso il mondo, alla ricerca di nuovi odori, mai sentiti.
Mi sono guardata intorno e ho pensato che forse, altrove, quel naso avrebbe trovato più respiro. Non qui, non in questo posto, non tra le stamberghe gelate. Gli occhi fermi, come pozze nere, mi fissavano al di sotto della fronte spianata. Poi la bocca ampia, da cui spuntavano denti che un tempo dovevano essere stati bianchissimi, si è contorta in un sorriso abbondante, aperto.
“Buongiorno, sono Ibrahim”, ha detto avvicinandosi, tendendomi la mano. L’ho toccata. Era fredda, dura, callosa.
“Come si dice ‘buongiorno’ in senegalese?”, gli ho chiesto per rompere il ghiaccio.
“Jawwali è buongiorno, mbadda è ciao”, ha risposto lui.
“Jawwali, Ibrahim”, ho provato a ripetere, non senza un certo impaccio.
Mi ha stretto ancora la mano tra le sue. Poi ha aggiunto, facendomi strada: “Ora possiamo anche andare.”
Camminando insieme, per la prima volta, ho sentito che non sarebbe stata l’ultima. Non mi sono sbagliata.
QUEL SOTTILE FILO CON IBRAHIM
Da allora le cose nel ghetto non sono cambiate. Ma io ho iniziato ad andarci più spesso. Anche perché si è stabilito un certo rapporto di confidenza con Ibrahim. Ora lui è più aperto. Quando mi incontra, mi sorride e mi abbraccia davvero. È ancora il “capetto” dell’area senegalese, l’innesto perfetto per creare una connessione con il resto degli abitanti del campo. Attraverso la sua preziosa mediazione, infatti, le informazioni superano le feritoie metalliche della rete per giungere lì, nel mondo in cui c’è lavoro. La conoscenza della lingua lo rende l’interprete perfetto nelle contrattazioni lavorative tra i suoi compagni e i ‘padroni’ italiani. Poi è sveglio, Ibrahim. Ha imparato a fare i prezzi, a farsi pagare a giornata e non ‘a cassone’, a trovare lavoro anche nei periodi più impervi dell’anno.
“Faccio tutto, quando c’è lavoro, io faccio lavoro.”
Una sintesi perfetta, nell’era della diversificazione. È muratore, ‘coltivatore diretto’ e, per formazione, fornaio. Quello che serve, pronto all’uso, per tutte le stagioni.
“Ibra, è libero oppure occupato?”, inizio ridendo. Ormai ogni telefonata parte così. Io lo prendo in giro, ricordando il tenore della nostra prima conversazione, e lui mi risponde con una fragorosa risata. Stavolta, però, qualcosa non va. Una nota stonata nella voce mi fa intuire che è preoccupato. “Ibra, tutto bene?”, chiedo seria.
“Sì sì, bene insomma. Sai…tu hai sicurimente visto che successo in Italia”, risponde abbattuto. “Abbiamo parlato con altri ragazzi qui al campo. Tutti molto preoccupati. Italiani sono arrabbiati con politici e vedono africani solo cattivi. Italia è il Paese che non ci vuole più. Prima un po’ sì, ma adesso no. Poi…io non ho detto prima ma…io ho problema con miei documenti per restare. Sempre fare tutti permessi, sempre andare alla polisia. Però ora, tra qualche giorno, devo andare alla Questura a Roma. Avvocato nuovo dice: tutto tranquillo, tutto tranquillo. Ma io so che non è tutto tranquillo. Se poi avvocato ha preso in giro altra volta, è finita. È finita.”
Non l’ho mai sentito così. Ibrahim è abituato alla segregazione, al lavoro nero, a essere costantemente guardato dall’alto in basso. Ma ha sempre giocato secondo le regole. Non può bastare la burocrazia italiana per spegnere le speranze di un sopravvissuto.
“Stai tranquillo. Parliamo con calma, vuoi?”, gli dico con voce sommessa. “Ti ascolto, però devi parlare piano, così capisco tutto”, aggiungo.
“Va bene, sì va bene. Io non so con chi parlare”, sussurra lievemente. Lo ascolto. E Ibrahim, a poco a poco, si lascia andare.
DIVERSO DA CHI?
“Sai, per noi di Senegal più diffiscile restare in Italia”, si sfoga. “Polisia dice: Senegal niente guerre, perché devo dare asilo a te? Non sanno che lì è guerra tutti i giorni, solo senza armi. Loro dice: niente guerra? Niente permesso. Che ne sanno di Senegal? Che ne sanno loro che in Senegal a un uomo che ruba il pane può essere taliata la mano? La fame è una cosa brutta. La fame fa fare le cose brutte alle persone. Mio papà è morto perché aveva fame e ha sbaliato. Yumma, mia mamma, morta quando io ero piccolo. Mia sorella più grande, morta con suo bambino nella pancia.”
“E tu Ibrahim? Cosa ricordi di quando eri bambino?”, azzardo.
“La terra gialla e la fame. Avevo sempre tanta fame, anche quando ero piccolo. Poi ho inisiato a lavorare”, ricorda. “Lavoravo in forno. Se in Senegal fa caldo, in forno di Senegal fa più caldo”, ride. Poi aggiunge: “Non avevo tanti soldi. C’era mio fratello più piccolo, lui doveva mangiare, io dovevo mangiare. Per qualche anno ho fatto così. Poi, ho sbaliato.”
Non mi dice se si tratta dello stesso errore che è stato fatale a suo padre. Non lo chiedo. Restiamo in silenzio per qualche istante. Dopo un lungo sospiro, Ibrahim riprende fiato e mi dice di essere stato in Libia per quasi un anno prima di avere i soldi necessari per il viaggio in mare. Un anno di cui non vuol parlare come se avesse deciso, da tempo, di chiudere una piccola finestra sulla memoria. “Libia non mi piace”, mi liquida in fretta. Capisco che non è il caso di insistere. Come un riccio dalle fitte spine, Ibrahim si schiuderà solo nella stagione opportuna. Non è ancora questa.
“E l’Italia invece ti piace?”, chiedo.
“Italia è diversa, è cambiata”, risponde, secco. “Italiani votano quello che dice: immigrati tutti a casa. Quindi italiani non ci voliono più. Hai visto ragazzo senegalese di Firenze? Hai visto cosa successo in moschea di vicino Venesia? Basta stranieri. E io adesso un po’ più paura per documenti e per il resto. Come si chiama? Salvino…”.
“Salvini…”, correggo.
“Quello là dice che noi siamo diversi”, continua. “Ma diversi da chi?”
Non so cosa rispondergli. Se i nobili ranghi della stampa italiana sono tutti asserragliati per stabilire fino a che punto il voto del 4 marzo scorso – nel Sud Italia – sia stato dettato da un clientelismo di ritorno, in pochi si sono preoccupati di verificare l’effetto del boomerang Salvini sul popolo dei migranti. Sul Piave – che nell’ottica del leader leghista metaforicamente supera i confini geografici per raggiungere le coste di Lampedusa – non passa lo straniero.
“Ibrahim, non pensare a Salvini. Pensa, piuttosto, ai tuoi documenti. Cosa è successo quando sei arrivato in Italia? Hai fatto richiesta di asilo politico?”, domando.
FIORE DI LUCANIA
È arrivato in Italia su uno di quei barconi di fortuna che attraversano impunemente il Mar Mediterraneo fino a giungere sulle nostre coste. Prima destinazione Lampedusa, per il foto-segnalamento e l’identificazione di rito. Poi Roma, per le prime carte in Questura e via, fino al Centro di prima accoglienza di Foggia. Qui per 7-8 mesi ha imparato a parlare e leggere l’italiano.
“Scrivere un po’ meno perché io non capisce qualche parola, per me è diffiscile”, racconta. Poi, i primi tentativi burocratici per una regolarizzazione permanente. Con il primo permesso di lavoro di sei mesi Ibrahim ha trovato impiego nei cantieri edili di Matera. Ancora oggi, quell’esperienza è motivo di vanto.
“Quando sono stato lì”, ricorda, “il mio padrone mi voleva molto bene. Lui mi voleva assumere con contratto, pure tempo inditirminato. Però io non avevo tutte le carte buone. Non avevo documenti. Perché avevo solo codice fiscale, con carta di lavoro.”
È rimasto in Basilicata per quasi due anni. Aveva una casa, un lavoro stabile e qualche responsabilità. Tra cui quella di tornare a Foggia, regolarmente, per rinnovare il proprio permesso di lavoro.
“A me piace quando mi sente importante”, ammette. “A Matera io ero importante per padrone. Facevo tutto io. Parlavo con li operai, dicevo quanto tempo si doveva restare, ero come capocantiere. Pure con li italiani ero capocantiere!”, esclama sorridendo sarcasticamente.
Il suo datore di lavoro gli aveva garantito uno stipendio fisso e un tetto sopra la testa. Nello stupore generale aveva bloccato un appartamento i cui costi, per i primi sei mesi lavorativi di Ibrahim, erano sostenuti interamente dall’azienda.
“Così io avevo tempo per raccoliere soldi per inisiare a pagare. Primi sei mesi, non ho pagato affitto, acqua, corente. Dopo pagato tutto io, chiaro. È la regola. Poi però”, ricorda con mestizia, “è scaduto di nuovo permesso. Sono andato da polisia ma c’è stato qualche problema con documenti e ho perso lavoro a Matera. Allora, sono rimasto a Foggia. E adesso, aspetto.”
STORIA DI UNA FRODE LEGALMENTE ASSISTITA
Che cosa aspetta Ibrahim? Convocato per la fine del mese di marzo dalla Questura di Roma aspetta un pronunciamento definitivo sulla sua permanenza in Italia. O è dentro, o è fuori.
“Io non volevo fare richiesta di asilo”, mi confida. “Perché diffiscile che Italia dà asilo a senegalese, non c’è guerra. Però io all’inizio non capivo bene, ha fatto tutto primo avvocato. Però nuovo avvocato ora dice che si può fare, che è tutto tranquillo.”
“Ma quanti avvocati hai avuto? E poi che vuol dire che è tutto tranquillo?”, lo incalzo.
“Due avvocati, in tutto. Nuovo avvocato dice che è tranquillo, ma io non sta tranquillo”, si infervora. “Perché alla fine di marzo scade permesso di lavoro. Nello stesso giorno, io deve andare a Roma per sapere se ho finalmente documenti.”
“L’avvocato verrà in Questura con te?”, domando ancora.
“No, lui non viene mai con me, molto impegnato”, si affretta Ibrahim. “Succede che io vado in Questura, do loro le carte di avvocato, poi loro dice sì o no documenti. Quello che loro dice, io poi esco di Questura e vado di avvocato…”
“Scusa ancora Ibra”, lo interrompo. “Ma tu hai pagato questo nuovo avvocato?”
“Sì, certo che ho pagato. Seicento euro più soldi di carte. Ma non ho dato tutti soldi perché ho imparato. Tricento subito, più i soldi di carte, gli altri quando ho documenti. Non sono scemo, stavolta.”
Devo capirci di più. Vado più a fondo e scopro, mio malgrado, che ben prima della parentesi lucana Ibrahim aveva nominato un legale per curare tutti gli incartamenti necessari alla regolarizzazione. Lo ha pagato più di 400 euro, senza contare la copertura delle spese legali. Tornato a Foggia per il rinnovo del permesso di lavoro, in Questura ha scoperto che non era stata avviata alcuna pratica. In sostanza l’avvocato, una volta intascati i soldi, aveva accidentalmente dimenticato di formalizzare la procedura di Ibrahim. Con il risultato, già anticipato, che Ibrahim, convinto di poter tornare a Matera per ottenere il contratto di lavoro “inditirminato” si è trovato, senza documenti, a dover rinnovare il permesso di sei mesi. Non riesco a immaginare la sua reazione. Non so cosa deve aver provato nel sentirsi umiliato, prima ancora che derubato. Da allora, ha nominato il nuovo avvocato romano. Ma il fatto che non lo accompagni in Questura, che chieda sempre soldi in anticipo, che gli dica di stare tranquillo, a lui non piace. Anche perché poi, il nome dell’avvocato cui rivolgersi gli è stato suggerito direttamente in Questura. E lui non si fida.
“Se più povero quando ti rubano tranquillità”, sospira.
“Ibrahim”, tento con la voce strozzata. “E se le cose non dovessero andare come speri…come tutti speriamo. Che farai?”
EPILOGO
Ibrahim non mi risponde, ma so che lotterà con le unghie e con i denti per restare in Italia. Anche se non so bene il perché. Dopo la frode legalmente assistita di cui è stato l’involontario oggetto, ha vissuto nella provincia di Foggia come un reietto tra i reietti. Ogni spicciolo, ogni risparmio, è stato messo da parte per i documenti. Ogni goccia di sudore nelle campagne della Capitanata, ogni ora passata a rantolare nel fango e nella sporcizia, ogni notte, è stata vissuta con l’unico obiettivo di restare in Italia.
“Ricordi Muhammad, l’amico mio di qua? Quello che ti ho presentato…”, mi domanda interrompendo il mio flusso di pensieri.
“Sì Ibra, lo ricordo”, rispondo.
“Si è fidansato con una di Foggia. Lui è bravo ragazzo ma…si accende più fascile di una baracca senegalese!”, aggiunge ridendo. “Lui molto arrabbiato per situasione qua, in Italia. Non vuole restare, non dopo Salvino. Poi situasione qua, in ghetto, non è fascile. Ognuno fa a modo suo. Noi senegalesi ok, ma nigeriani sono diversi, tu sai. Tu hai visto”, mi punzecchia.
Rivivo tutto come in un flashback. La questione dei bordelli, dello smercio di droga all’esterno del ghetto, dei rapporti delle autorità che sostengono che piccoli agglomerati della mafia nigeriana si siano ricostituiti negli antri dei ghetti foggiani. Mentre, all’esterno, i sistemi criminali locali speculano iniquamente sulla nuova forza lavoro importata dall’Africa. C’è tutto.
“Sì, lo ricordo bene”, dico mentre mi ritorna in mente lo sguardo tagliente delle giovani donne nigeriane.
“E allora, Muhammad”, racconta Ibrahim mal celando il mio silenzio “vuole andare in Germania, con sua fidansata. Ma lei ha detto che non va in Germania con lui, se lui non prende documenti. Perché dopo, tutto più diffiscile. Ha ragione. Io conosco un amico mio, Mamadou. Lui è pullo (pular è il nome di uno dei molteplici dialetti parlati in Senegal, ndr), come me. Ma è piccolo, ha solo 21 anni. E lui è venuto in Italia dopo di me, un anno e mezzo fa. Hanno preso impronte a Caliari, poi è rimasto là. Ma non riusciva ad avere subito documenti e lavorava in un campo, come qua. Sai che ha fatto? È scappato, lo stronso! È in Francia, adesso, ma lì non può restare. Polisia francese ha detto che lui ha preso impronte in Italia e deve tornare in Italia. Che se qua non è regolare, là non può essere regolare. Ma poi, se torna in Italia, niente più permesso perché andato in Francia non regolare. Mamadou è fregato, completamente fregato! Là non può restare, se viene qua lo fanno tornare in Senegal”, dice.
“È importante la paziensa”, ripete come un mantra più a se stesso che a me. “Pure quando hai fame, devi aspettare. Questo ho imparato in Senegal. Ora io ho detto a Muhammad che non deve essere stronso come Mamadou. C’è regola, si rispetta anche quando regola diffiscile.”
Lo ammiro. Il suo destino è appeso a un filo. Rischia di tornare in Senegal, come Mamadou, pur avendo seguito le regole. Eppure è su quelle che continua a fare affidamento. Come in una religione, Ibrahim ha fede nelle regole.
“Quando viene il tempo, quando polisia decide e avvocato mi dice, posso telefonare a te?”, mi domanda timidamente.
“Sì, certo che puoi, non c’è problema. Sai come funziona? Se sono libera, rispondo, se sono occupata…”
“Mi dici che sei occupata”, mi interrompe risoluto.
“No, ti dico che sono libera e rispondo. Jamniall, Ibrahim”, lo saluto.
“Stai imparando pular. Brava. Una cosa, prima di chiudere il telefono, che devo lavorare in campagna con nuovo padrone domani. Io avevo capito che con te potevo parlare già prima volta. Buonasera anche a te, amica mia.”
La telefonata, chiusa di colpo, è il chiaro segnale che non ha più nulla da dirmi. Con poche parole, in fondo, ha detto tutto. Deve prepararsi a combattere la sua guerra, Ibrahim, mentre io resto sospesa. Aspetto che il dogma in cui crede anche quando non se lo sa spiegare – la legge – dia un premio alla pazienza, la sua. E uno alla speranza, la mia.