Il 25 novembre è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una data importante – scelta da un gruppo di donne attiviste, riunitesi nell’Incontro femminista latinoamericano di Bogotà nel 1981 – necessari a porre l’attenzione su un fenomeno che non ha più i tratti tipici di un’emergenza, ma che è diventato uno stato di fatto e riguarda Paesi e culture in modo trasversale.
Non è semplice definire i contorni di un fenomeno così esteso che tocca tutte le fasce di età, tutte le razze, tutte le culture – senza distinzioni di sorta – e che si manifesta in forme sempre diverse:
dalla violenza fisica a quella psicologica esercitata nel quotidiano, che sfugge spesso anche al nostro controllo. Avremmo potuto raccontare le storie di chi ha vissuto e vive la violenza. Ma a quelle storie, probabilmente, ci siamo abituati come ad un suono flebile e fisso in sottofondo. Una scena muta. Questo dipende dalla nostra sensibilità e dal modo in cui, ogni giorno, ci confrontiamo con la realtà. Ma dalla realtà bisogna ripartire. Termini come “femminicidio” sono entrati di forza nel nostro vocabolario ed oggi pronunciamo quella parola con semplicità, velocità, passività. Quasi che possa essere quella sola parola ad aiutarci ad archiviare l’ennesimo caso. Per ridare valore alle cose è necessario partire dalle origini, dalle parole, dagli intenti. Questo è il senso del nostro breve viaggio intrapreso per ritrovare il senso del rispetto e del vivere civile. Un percorso che parte dalle persone, come quelle che fanno parte della Casa Internazionale delle Donne di Roma, che il 26 novembre hanno organizzato un’importante manifestazione sotto il segno di tantissime associazioni sparse su tutto il territorio nazionale che si incontreranno a Roma al grido di #nonunadimeno. Un corteo formato da “coloro che riconoscono nella fine della violenza maschile una priorità nel processo di trasformazione dell’esistente.”
Vittoria Tola, responsabile nazionale dell’Unione Donne in Italia (UDI) è tra le promotrici della manifestazione. Il quadro che emerge dal confronto è sconfortante: pochi, pochissimi i dati reali raccolti sulla violenza femminile in Italia, con statistiche ormai obsolete che non tengono conto del sottobosco di situazioni e casi nascosti che faticano a venir fuori con una conseguente forte pecca che connota l’improbabile sistema di misure preventive atto ad arginare e bloccare l’escalation del fenomeno.
TIPOLOGIA DI VIOLENZA
“La fenomenologia è molto complessa”, racconta Vittoria Tola. “Secondo il lavoro delle donne delle varie associazioni, dei centri antiviolenza e delle case rifugio, in base a quanto previsto dalla convenzione di Istanbul (che si lega alla dimensione dell’Onu, ndr) si parla di violenza di genere riferendosi a tutto quel meccanismo che partendo dalla violenza fisica, passa attraverso la violenza economica, psicologica, lo stupro, fino a tutte le forme di libidine violenta, lo stalking, la molestia sessuale e quella sul lavoro. È un meccanismo che trova il massimo epilogo in quello che chiamiamo femminicidio.”
SCARSITÀ DEI DATI
Vittoria Tola continua a spiegare che “non si riesce mai ad avere un quadro reale, significa anche che c’è una ingenuità o una non volontà di profilare una dimensione quantitativa e qualitativa della violenza in tutte le sue forme e questo diventa un alibi per non adottare le misure adeguate in materia di prevenzione e non solo. Secondo la Convenzione di Istanbul lo Stato ha l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per proteggere le donne e risarcirle, nonché tutelare i figli aiutandoli a superare situazioni complesse, la scarsità di dati non può essere la scusa per giusti care le poche azioni del governo.” Un esempio fondamentale fornito dalla dottoressa Tola è quello che riguarda i Pronto Soccorso: “Non c’è un codice nel pronto soccorso che definisce se la donna in questione e che non denuncia può essere dichiarata possibile vittima di violenza, dunque non può essere identificata e sostanzialmente rientrare in nessun tipo di statistica, anche su questo piano si sta un po’ lavorando. Ma c’è ancora molto da fare.”
RICERCHE ISTAT
Vittoria Tola è stata un membro del comitato di ricerca responsabile di una delle poche raccolte dati in merito alla violenza. “Negli ultimi anni le ricerche sono state solo due: una che risale ai primi degli anni 2000 grazie ad un finanziamento di circa 3 milioni di euro del dipartimento per le pari opportunità con la prima grande ricerca Istat, ovvero la famosa stima sulle donne che hanno subito violenza: ci sono voluti sei anni. Nessuno aveva mai definito dei parametri per fare una ricerca di quel tipo. La seconda ricerca è stata fatta con il governo Monti, con una raccolta dati ancora frammentata, differenti a seconda del soggetto istituzionale che li raccoglieva, persino le denunce erano differenti.”
CENTRI ANTIVIOLENZA IN ITALIA
”I centri antiviolenza sono quasi tutti nati da donne, pochissimi quelli pubblici. Tra pubblici, convenzionati e autogestiti si raggiungono circa le 175 unità. Molte sono le case rifugio, gli sportelli territoriali o ospedalieri, distribuiti in tutte le regioni. Le più efficienti sono ad oggi Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Puglia, ma anche Sicilia, Veneto, Liguria e Piemonte, almeno per quanto concerne il rapporto tra territorio e punti ascolto. Ma guardando al fabbisogno attuale la proporzione è ancora insoddisfacente. Con la legge n. 119 del 15 ottobre 2013 lo Stato è intervenuto per disciplinare il finanziamento di questi centri con lo stanziamento di fondi erogati a Regioni, Province e Comuni. Alcune Regioni hanno impegnato questi soldi ma non hanno finanziato tutti i centri. Un esempio è quello che riguarda l’area metropolitana di Roma, a suo tempo sguarnita di personale di programmazione. L’errore fondamentale da parte del Governo è stato la mancanza di lungimiranza: non si è pensato alla sostenibilità economica per gli anni futuri, generando incertezza per il futuro di queste strutture.”
Molto spesso l’efficienza vera di questi centri dipende anche dal rapporto di sostegno che si crea con le istituzioni locali. Quindi la differenza, ancora una volta, la fanno le persone.
DENUNCIARE
“Si denuncia molto più di prima, quello che è cambiato poco purtroppo è il sostegno a chi trova la forza e il coraggio per compiere questo passo: denunciare è molto faticoso e molto spesso si finisce per subire una vittimizzazione secondaria, sia quando ci si rivolge alle forze dell’ordine, sia quando ci si reca nelle strutture sanitarie. Bisogna ricordare che fino a poco tempo fa, le donne venivano colpevolizzate per atteggiamenti provocatori, oggi – molto lentamente – questo atteggiamento comincia a sgretolarsi.”
Iniziare un percorso giudiziario significa affrontare un periodo molto lungo fatto di attese, ingenti spese economiche, ansia, problematiche lavorative. Anche questo punto troverà maggiore sviluppo in seguito, ma risulta emblematica una frase pronunciata da una ragazza di Montalto, al termine delle sue vicende giudiziarie durate ben otto anni: “Se avessi saputo cosa avrei affrontato non avrei mai denunciato.”
“IL RICORSO ALLA SANZIONE PENALE RAPPRESENTA IL SEGNO DEL FALLIMENTO DELLE POLITICHE DI PREVENZIONE”
Elisabetta Rosi, magistrato presso la Corte Suprema di Cassazione, ha avuto modo di seguire moltissime vicende giudiziarie legate alla violenza sulle donne. Il suo impegno oggi è rivolto anche alla formazione dei giudici che devono quotidianamente entrare in contatto con queste storie per aumentare il livello di sensibilità e fornire gli strumenti minimi necessari per trattare nel modo giusto situazioni delicate. Il 26 novembre, insieme a molte altre figure come filosofi, avvocati, magistrati e professionisti di varia natura, sarà protagonista di una intera giornata di formazione: un incontro volto innanzitutto ad assumere maggiore impegno e responsabilità verso la Convenzione di Istanbul. “La sezione della Cassazione che si occupa di violenze sessuali segue un panorama molto vasto di casi, con numeri grandi ma anche con vicende che giungono dopo anni e anni di dibattimenti in tribunale. Stando a quanto indicato dalla Convenzione di Istanbul dobbiamo considerare i processi penali come il segno del fallimento degli interventi dei governi in tema di prevenzione, soprattutto in quelle fasi che dovrebbero stoppare l’escalation della violenza.”
L’ITALIA E IL RECEPIMENTO DELLA CONVENZIONE DI ISTANBUL
“Siamo lontani dagli obiettivi che la Convenzione si propone, qualcosa in questi anni è cambiato se pensiamo, ad esempio, alla maggiore sensibilità degli uffici degli inquirenti che si occupano dei casi di violenza, ma molto va ancora fatto a livello culturale: bisogna partire dalle scuole, dalla mentalità, dal rispetto della donna, dai rapporti interpersonali. Allo stato attuale il rispetto comunemente inteso è un concetto lontano: la circolazione delle nuove tecnologie ha permesso che fenomeni come la pedopornografia, un tempo molto limitati, oggi trovino nuovi bacini di diffusione grazie alla rete e allo scambio di video e foto con la deriva del ricatto e con l’implicazione di molti minori coinvolti nei processi.”
L’iniziativa del 26 novembre costituisce il primo passo per istituzionalizzare incontri di formazione. “Il problema è che a questi incontri il pubblico e la platea è quasi sempre composto da sole donne, questo è già il segno del fallimento di ogni iniziativa. L’importante è capire che la cultura del rispetto è di tutti, trasversale, e un giudice deve essere sensibile con una cultura a tutto tondo. Nel suo patrimonio culturale deve sentire come un proprio problema il con itto tra l’uomo e la donna quando questo con itto arriva a ledere diritti fondamentali come la libertà, la salute e la vita.”
IL TEMA DELLA GIUSTIZIA
Le statistiche giudiziarie sono gender blind rispetto alle vittime, dunque non è possibile ottenere dati sensibili per i processi che giungono in Cassazione. Per quanto riguarda i tempi di questi processi va detto che la giustizia in Italia ha una velocità a macchia di leopardo: certamente la necessità di una giustizia rapida è un problema che va oltre i casi di violenza sulle donne ma
che riguarda tutti i processi in Italia. La tematica della giustizia penale trova ancora altri spazi di discussione con problematiche ancora differenti: tutti i giudici devono avere una specializzazione minima che riguardi la violenza, altrimenti per questi casi si rischia di creare il solito ghetto di donne deputate a disciplinarli. L’uomo realizzato con se stesso è il primo a voler garantire questo rispetto. Dobbiamo ragionare con gli uomini e con i giuristi. I giudici non hanno sesso, devono portare una sensibilità universale cercando di allontanarsi dai propri pregiudizi, altrimenti sarebbe un mestiere come un altro. Ma non lo è.”
Con la Convenzione di Lanzarote dell’1 luglio 2010 – il primo strumento internazionale con il quale si prevede che gli abusi sessuali contro i bambini siano considerati reati – sono stati stabiliti tempi di prescrizione molto lunghi al ne di proteggere le vittime, ma la contro partita di questa decisione ricade nell’eventuale paradosso che si crea: molti tribunali hanno un numero incredibile di arretrati dei processi penali, quando i presidenti fissano le date dei processi danno priorità a quelli che si prescrivono prima, quindi questi processi vanno in coda.
“RESTITUIAMO LA PAROLA AGLI UOMINI. INVENTIAMO UNA GRAMMATICA NUOVA”. IL MODELLO PUGLIA
Anna Maria Vigilante è la referente regionale dei centri antiviolenza di Puglia. La task-force è stata istituita con la legge regionale n.29 del 2014 dalla Regione Puglia: una legge prodotta da un percorso condiviso tra tutte le associazioni di genere presenti sul territorio e dai centri antiviolenza. Possiamo parlare di “modello Puglia” poiché grazie alle intense collaborazioni tra le istituzioni ai vari livelli e le associazioni e le cooperative presenti sul territorio, si è riusciti ad implementare un modello di rete funzionante, ancora in fase di rodaggio, che però è già in grado di generare dati, accogliere e proteggere le vittime di violenza su tutto il territorio pugliese in modo equilibrato e bilanciato. Come ci spiega l’avvocatessa Vigilante, “la legge ha disciplinato le figure professionali richieste nei centri ed il livello di esperienza necessario di queste ultime definendo i requisiti. Siamo riusciti a coprire tutti gli ambiti territoriale meno due che ancora non sono riusciti a stipulare convenzione. Con un meccanismo a cascata, l’ente locale stipula convenzione con l’associazione che a sua volta cede ai programmi antiviolenza regionali.”
COSA PREVEDE LA LEGGE REGIONALE PUGLIESE
La legge regionale n.29/2014, su “Norme per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, il sostegno alle vittime, la promozione della libertà e dell’autodeterminazione delle donne”, prevede 4 linee: monitoraggio sul territorio, attuato a costo zero perché attivato dagli stessi funzionari regionali, i quali chiedono dei dati che inviano anche al Ministero. Nel 2015 è stato fatto il primo report statistico, il primo regionale e anche nazionale, sulla base di questo report sono state adottate le linee guida sulla violenza assistita, come comportarsi nei confronti di minori; programmi antiviolenza che finanziano gli ambiti territoriali, oggi ne sono stati ammessi 36 su 38. Sono stati messi a disposizione 1.515.000 euro con i quali si è avviato il programma; erogazione dei fondi. La Regione ha già attuato la linea C. A giugno 2016 è stata erogata la prima trance del 60% da parte della regione agli enti locali e questi ai centri antiviolenza; intervento e contrasto per il maltrattamento sui minori. Questa linea gode di un finanziamento indipendente pari a 1.434.000 euro.
IL FUNZIONAMENTO DEI CENTRI
“Dopo un anno e mezzo di incontri in Regione siamo riusciti a pervenire a questa legge, come un vero sforzo corale. Il fatto che all’epoca ci fosse un’assessora donna ci ha sicuramente aiutato. Secondo la legge approvata, le figure presenti nei centri sono un’avvocatessa, due psicologhe – di cui una psicoterapeuta -, un’assistente sociale e un’educatrice. Queste sono le figure richieste perché il centro sia ritenuto adeguato e possa essere iscritto al registro regionale. Intorno ne gravitano altre, come ad esempio una sociologa. Tutti i centri hanno la funzione di ascolto, una volta che viene interpretata l’esigenza della vittima si stabilisce se c’è bisogno di un avvocato civilista o penalista, se la donna richiede l’ausilio di una psicologa ed altre misure simili. Se c’è pericolo di fuga viene allontanata con l’ausilio dell’assistente sociale.”
Dai dati pugliesi Anna Maria Vigilante conferma che ci ritroviamo di fronte ad un fenomeno trasversale, dove tutte le fasce d’età sono coinvolte. Anche i minori sono molto coinvolti e per questo motivo si è attivato anche il progetto Giada con l’ospedale psichiatrico di Bari. Le violenze più frequenti sono quelle domestiche e sono efferate, raggruppano qualunque tipo di violenza fisica, psicologica ed economica, sessuale. Moltissimo stalking tra ex coniugi tra i quali la situazione diventa più allarmante al ridosso della separazione.
ITER GIUDIZIARIO
“Le indagini sono lunghissime, contrariamente a quanto previsto dalla legge, i processi durano troppo. Non viene utilizzato mai utilizzato lo strumento dell’incidente probatorio, questo vuol dire che la donna deve essere sentita all’interno del processo e così sottoposta ad un’ulteriore violenza. Lo dico con rammarico.”
Sono procedimenti che devono avere una corsia preferenziale. Tutti i soggetti coinvolti e gli attori della rete stanno tentando di seguire un percorso di formazione unica per utilizzare quasi lo stesso linguaggio o comunque le stesse modalità di accoglienza e nonostante questo ci sono ancora di coltà soprattutto nell’iter giudiziario. Anche la Vigilante parteciperà a #nonunadimeno, perché “contarsi non è mai sbagliato. Sarà un’azione di sensibilizzazione con un messaggio rivolto ai nostri politici che continuano ad utilizzare la violenza sulle donne come uno strumento di propaganda, dobbiamo evitare che vengano creati ulteriori danni. Dobbiamo avere la capacità di riconoscere i nostri errori, il bello della rete è proprio il confronto. Ma un confronto universale, che sia anche e soprattutto con gli uomini. Restituiamo la parola agli uomini inventiamo una grammatica nuova.”
I NUMERI
L’accesso delle donne ai centri antiviolenza. Nel 2015 gli accessi sono stati 1.297. Se a questo numero aggiungiamo il dato trasmesso, successivamente alla rilevazione, dal Comune di Foggia e relativo alle donne che hanno avuto accesso alle prestazioni del proprio centro antiviolenza – che è pari a 205 – emerge un dato complessivo, sia pure ancora parziale, di 1.502 accessi nell’anno 2014. Gli accessi del 2014, includendo anche il dato del centro antiviolenza foggiano, sono stati di poco superiori agli accessi registrati nel corso del 2013 (1.453). A fronte di qualche lieve decremento registrato da qualche Centro antiviolenza, si sono registrati accessi in territori nei quali sono stati avviati sedi/sportelli, a seguito del convenzionamento stipulato tra Ambiti territoriali e centri stessi.
Come ci si rivolge. Sul totale del dato rilevato emerge che il 72 per cento delle donne si rivolge spontaneamente al centro antiviolenza mentre nel 28 per cento dei casi avviene su invio da parte di altri servizi, percentuale in aumento rispetto al dato del 2013 (21 per cento).
Etnia delle vittime. Sul totale degli accessi registrati dai centri antiviolenza, il 91 per cento delle donne ha cittadinanza italiana, il 3,5 per cento ha cittadinanza nei paesi UE, il 5,5 per cento è di cittadinanza extra UE. Dati che sostanzialmente confermano quanto registrato nell’anno precedente.
Età. La fascia di età prevalente, e con molta probabilità anche quella più colpita dalla violenza, riguarda le donne tra i 30 anni e i 49 anni (47,3 per cento). Significative anche le percentuali delle donne nella fascia 18-29 anni (13,9 per cento) e nella fascia 50-59 anni (4,2 per cento). Rispetto all’anno precedente si registra un aumento percentuale significativo (+7 per cento) nella fascia di età compresa tra i 30-49 anni e un decremento in termini percentuali per la fascia di età che parte dai 18 anni. Da approfondire il dato del “non dichiarato” (18 per cento) che potrebbe fare riferimento alla di coltà dei centri antiviolenza di ottenere informazioni nel corso del primo contatto telefonico da parte della donna.
Stato civile. Con riferimento allo stato civile risulta che le donne vittime sono prevalentemente coniugate (55,8 per cento). Segue la percentuale relativa alla condizione di nubilato (20,2 per cento) e la condizione delle donne separate e divorziate (17 per cento).
Autori delle violenze. Gli autori delle violenze sono prevalentemente due: il partner (includendo coniugi e conviventi) e l’ex partner. Tipologie di autori che rappresentano complessivamente il 78,2 per cento. Il partner attuale è l’autore di violenza nel 60 per cento dei casi mentre gli “ex” continuano ad agire violenza nonostante la chiusura del rapporto (18 per cento). I familiari risultano autori della violenza per l’11,3 per cento dei casi; i colleghi/conoscenti per l’8 per cento delle situazioni; gli sconosciuti per il 2 per cento. Il dato del 2014 non si discosta molto da quello del 2013, se non per un lieve calo della prima tipologia (-2,5 per cento) ed un aumento della tipologia “altro parente” (+2,5 per cento) che conferma in ogni caso la dimensione inquietante della violenza agita all’interno delle mura domestiche. Da sottolineare che la tipologia “sconosciuti” risulta la più ridotta in termini percentuali. Questo potrebbe far ipotizzare che le donne che subiscono violenza da parte di estranei si rivolgono direttamente alle forze dell’ordine e alla magistratura, senza passare dai Centri antiviolenza. Dai dati raccolti emerge una percentuale significativa (27,1 per cento) riferita ad “altri parenti” e una percentuale identica (13,6 per cento) per le tipologie “coniuge” e “figlio”.
Tipologia di violenza. La tipologia di violenza prevalente nel 2014 è quella fisica (49,4 per cento), seguita da quella psicologica (25,7 per cento), dallo stalking (14,2 per cento), dalla violenza sessuale (6,7 per cento). La violenza psicologica sembra però accompagnare tutte le forme di violenza (54,3 per cento), così come quella del ricatto economico (18,7 per cento). Rispetto al 2013 aumentano lievemente le donne che subiscono violenza fisica e psicologica, mentre diminuiscono le violenze sessuali (-3 per cento). Aumenta la violenza economica soprattutto come forma di violenza che accompagna le altre (+8,5 per cento).
Rilevazione dell’Osservatorio regionale su dati del 2014 e riferiti ai 15 Centri antiviolenza, pubblici e privati Sostegno Donna (Associazione Alzaya, Taranto), La Luna (Coop. Soc. Artemide, Latiano), Crisalide (Comune di Brindisi), Gira a (Associazione Gira a onlus, Bari), Aporti (Coop. Soc. Aporti, Brindisi), Io donna per non subire violenza (Associazione Io Donna, Brindisi), Il Melograno (Ambito territoriale di Conversano), Il Melograno (Coop. Comunità San Francesco, Parabita), La Luna nel pozzo (Comune di Bari), Osservatorio Giulia e Rossella (APS Osservatorio Giulia e Rossella, Barletta), Renata Forte (Associazione di Volontariato Donne Insieme onlus, Lecce) Riscoprirsi (APS RiscoprirSi, Trani), Rompiamo il silenzio (APS Sud Est Donne, Martina Franca), Sa ya (Associazione Sa ya onlus, Polignano a Mare), Save (Coop. Soc. Promozione Sociale e Solidarietà, Trani)