Il suolo impiega circa 2.000 anni per formare appena 10 centimetri del suo spessore. Nel 2018 in Italia 51 chilometri quadrati di territorio sono stati interessati da coperture artificiali, un consumo di suolo che vanta una media di 14 ettari al giorno, 2 metri quadrati al secondo in un solo anno.
Il suolo è uno dei più efficaci regolatori dell’emissione e dell’assorbimento di gas serra: le sole aree umide del pianeta trattengono circa il 20 per cento (850 miliardi di tonnellate) di tutto il carbonio terrestre stoccato nel suolo, ossia una quantità pari a quella contenuta in atmosfera e sotto forma di CO2, e se il suolo non esercitasse questa sua funzione tutto questo carbonio tornerebbe in atmosfera, guastando in maniera irreparabile il già precario equilibrio dei gas nell’aria. Non è un caso che il suolo venga definito “la pelle del pianeta”, un vero e proprio organo vitale capace di mitigare e gestire tutti i fenomeni interni ed esterni della Terra. Totalmente ignorato dal nostro peso, dalle suole delle nostre scarpe, eppure rappresenta il principale laboratorio di energia che consente la vita a tutto quello che lo popola (e lo calpesta), un microcosmo di biodiversità capace di ospitare oltre un miliardo di specie viventi in un solo grammo, microrganismi che con un minuzioso e incessante lavoro garantiscono la genesi e la fertilità dei suoli. Un lavoro lungo e infaticabile, ma soprattutto invisibile, specie ai nostri occhi.
CHE COSA C’È SOTTO
Nel libro “Che cosa c’è sotto” (Altreconomia, 2016), l’urbanista Paolo Pileri, docente del Politecnico di Milano, ci definisce come «gli inquilini del piano di sopra». Non siamo certo i soli, ma siamo di fatto gli unici a poter compromettere il suolo in maniera irreparabile, una risorsa tanto preziosa che per orologio biologico è chiaramente non rinnovabile. Pileri affronta la questione di petto, e per quella che è: una vera e propria emergenza. Del suolo ne fa un inno romantico, ne pennella le caratteristiche essenziali, non risparmia nessuno di noi (specie i più distratti) e getta le basi per trasformarci tutti in “partigiani del suolo”. In “Che cosa c’è sotto” e nei successivi libri – “Il suolo sopra tutto” (2017) e “100 parole per salvare il suolo” (2018) dello stesso editore – fa pure un passo oltre, da persona competente che conosce il lato tecnico: si addentra nelle norme, ne cuce i paradigmi e le storture, ce le regala commestibili, snocciola dati e tecnicismi per la comprensione di tutti, arriva al cuore del problema e propone pure soluzioni. Il lavoro di Pileri è di fatto un lavoro completo: in poche centinaia di pagine affronta una tematica complessa in maniera trasversale, asciutta. In tempi di crisi di tutti i tipi, ripartire dal suolo potrebbe rappresentare un decisivo slancio ecologico, la pietra angolare di un nuovo risveglio di coscienze, di fronte alle lezioni del Covid-19 e alle sfide ambientali con cui ancora dobbiamo fare i conti.
CHE COS’È IL SUOLO?
Si parte anzitutto dalle definizioni: che cos’è il suolo. La legislazione italiana al momento propone ben due definizioni – per di più entrambi monche, il che dà semplicemente adito a inutili confusioni. La versione più aggiornata è del 2014:
«Il suolo è lo strato più superficiale della crosta terrestre situato tra il substrato roccioso e la superficie. Il suolo è costituito da componenti minerali, materia organica, acqua, aria e organismi viventi».
Una descrizione pressoché vaga, specie per chi il suolo poi lo dovrebbe regolamentare e gestire; in linea di massima, mancano almeno due concetti fondamentali: lo status del suolo come risorsa ecosistemica, e il suo riconoscimento formale ed esplicito di risorsa non rinnovabile, scarsa, vulnerabile e strategica. Va un po’ meglio in Europa, dove nello stesso 2014 il suolo veniva così identificato:
«Lo strato superiore della crosta terrestre costituito da componenti minerali, organici, acqua, aria e organismi viventi. Rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua e ospita gran parte della biosfera. Visti i tempi estremamente lunghi di formazione del suolo, si può ritenere che esso sia una risorsa sostanzialmente non rinnovabile. Il suolo ci fornisce cibo, biomassa e materie prime; funge da piattaforma per lo svolgimento delle attività umane; è un elemento del paesaggio e del patrimonio culturale e svolge un ruolo fondamentale come habitat e pool genico. Nel suolo vengono stoccate, filtrate e trasformate molte sostanze, tra le quali l’acqua, i nutrienti e il carbonio […]. Per l’importanza che rivestono sotto il profilo socioeconomico e ambientale, tutte queste funzioni devono pertanto essere tutelate.»
Ecco. Nella legislazione europea entrano in gioco parole fondamentali come “patrimonio” e “tutela”, ma soprattutto viene garantito il valore delle attività cruciali che il suolo svolge, come il filtraggio dell’acqua e la fornitura di cibo.
Il suolo ha una straordinaria capacità di trattenere l’acqua piovana (dal 10 per cento al 25 per cento in volume) per poi rilasciarla parzialmente e in un tempo dilazionato. Si stima che un ettaro di suolo sia in grado di assorbire spontaneamente 3,8 milioni di litri d’acqua, una quantità che richiederebbe ben 143 tir per portarla via. A tal motivo Pileri identifica la sigillatura o l’impermeabilizzazione dei suoli come uno dei principali “talloni d’Achille” del suolo: l’urbanizzazione rimuove completamente lo strato superficiale dei terreni e ne causa un danno permanente. Spesso si parla di riqualifica di altri suoli per bilanciare quelli sacrificati al cemento, ma non funziona così; rimuovere un edificio o eliminare una strada, decementificare aree verdi non significa godere subito e nuovamente dei benefici del suolo. Ci vogliono anni prima che un suolo possa ritornare alle sue specificità (laddove è possibile). In Europa siamo su valori allarmanti: si parla di circa 200 metri quadrati cementificati per ogni abitante europeo. Un ritmo pericolosamente serrato, un disastro annunciato di fronte al quale si rischia di dover poi mettere in campo sempre più risorse economiche per realizzare opere in difesa degli effetti dell’impermeabilizzazione.
APPROVVIGIONAMENTO DI CIBO
L’altra relazione stretta tra suolo e essere umano è quella dell’approvvigionamento di cibo. I terreni agricoli sono i più sacrificati, immolati all’altare del cemento. A livello mondiale, in soli 55 anni la disponibilità di suoli agrari pro-capite è più che dimezzata. Nel 1961 ogni cittadino poteva contare mediamente su circa 4.500 metri quadrati, nel 2008 su 2.200 metri quadrati. Il nostro Paese è in grado oggi di produrre appena l’80-85 per cento del proprio fabbisogno primario alimentare, contro il 92 per cento del 1991. Significa che se, improvvisamente, non avessimo più la possibilità di importare cibo dall’estero, ben 20 italiani su 100 rimarrebbero a digiuno. È un dato che potrebbe apparire banale, ma che in realtà minaccia la nostra sovranità alimentare. Considerate il dramma della carenza di mascherine in questo periodo di coronavirus: l’intero occidente è nel caos per aver in passato delegato ai paesi asiatici la produzione di tali beni, oggi essenziali. Immaginate se dovesse succedere con l’approvvigionamento di cibo.
Una quisquilia urbanizzata nel più piccolo dei comuni rappresenta in realtà un problema globale: per contrastare la contrazione di produzione interna (cumulata per tutte le quisquilie di tutti i più piccoli comuni) verranno poi convertite ad agricoltura migliaia di ettari naturali e semi-naturali in Africa, Sud e Nord America. Pileri fa l’esempio dell’Egitto, il nostro principale fornitore di grano: nel 2013 il paese africano, nonostante avesse perduto la capacità di soddisfare la propria domanda interna, continuava a inviare navi cariche di cereali verso i paesi europei. Pileri ne fa una questione di sicurezza alimentare, che dovrebbe sensibilizzare in primis la sua categoria, quella degli urbanisti, insieme a tutte le figure professionali e istituzionali dalle quali dipende la gestione dei suoli. «È un problema di competenza e di formazione», afferma Pileri. «C’è bisogno di una visione nuova, più ampia e più a lungo termine, in politica come per gli “esperti”».
In “100 parole per salvare il suolo”, Pileri sciorina una violenta quanto necessaria filippica sul tema del linguaggio, il burocratese della legislazione italiana, e tutto il suo alveo lezioso di parole incomprensibili. L’urbanistica come lingua straniera, un marasma di parole “morbide, arrotondate”; tecnicismi asfittici e zampate da volponi si mescolano a “parole pigre”, come ad esempio quelle che accompagnano l’espressione “consumo di suolo”. Pileri ne fa un breve elenco: minimo e controllato; minimizzazione del; ridurre / riduzione del; razionale sfruttamento del; contenere il / contenimento del / contenuto; frenare il; corretto uso del. Pileri afferma che «questo esercito di parole pigre non solo tiene in vita il consumo di suolo, ma determina anche l’assenza di uno slancio un po’ più convinto e radicale: basterebbe affermare che il consumo di suolo ‘si ferma’ e stop».
UNA DEFINIZIONE DI SUOLO PER REGIONE
L’altro elefante nella stanza che affronta Pileri è l’anarchia regionale in Italia per quanto riguarda la gestione dei suoli. Ogni regione ha la sua propria definizione di suolo, ogni regione dà un significato proprio per esempio a “superficie agricola”, e ognuno degli 8.000 comuni italiani ha un suo “dialetto urbanistico con cui deduce e controdeduce, decide e smonta le decisioni magari della stessa legge a cui dovrebbe uniformarsi (od opporsi)”. Una babele di interpretazioni utili solo a generare il caos per tutti, persino nelle aule dei tribunali, dove ci si ritroverà nell’imbarazzante situazione di giudicare la stessa cosa in modi diversi solo perché la definizione cambia oltrepassando un invisibile confine regionale o comunale. In Puglia ad esempio si parla di ‘consumo di suolo agricolo’, omettendo le altre tipologie; nella provincia di Trento, invece, il concetto si dilata parlando di ‘artificializzazione’, che sembra un termine riferito a un più ampio campo di possibilità; in Veneto si parla prima di impermeabilizzazione, poi di compromissione di funzioni ecosistemiche, il che comporta che qualcuno dovrà prendersi la briga di definire queste funzioni, di controllare l’impermeabilizzazione prima e dopo e stabilire se e quanto i suoli siano stati compromessi.
Non manca, nei lavori di Pileri, l’identificazione dei nodi chiave da sciogliere per poter davvero “cominciare a cambiare le cose”, tra cui l’abolizione della rendita fondiaria e immobiliare, la riduzione della frammentazione amministrativa, il recupero dell’esistente, oltre a identificare possibili exit strategies come la creazione di cinture verdi o di urban boundaries, tanto per cominciare, per porre un limite verde all’espansione urbanistica. Le proposte di Pileri sono confluite in una proposta di legge popolare, “Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati”, promossa dal forum “Salviamo il paesaggio”.
«La proposta dovrebbe risolvere anche vecchie e dannose questioni urbanistiche», spiega Pileri, «e con molta ambizione tenta di fornire chiarezza di intenti. Ma è ferma lì. In seguito a una raccolta firme, la proposta è stata immediatamente fatta propria da una compagine di parlamentari dell’ultima legislatura; è stata poi calendarizzata e si attendeva un esito. Ma ovviamente l’intero iter si è arenato». «Intorno al tema del suolo sta crescendo un promettente interesse da parte dei cittadini», conclude Pileri, «ma probabilmente non in modo così significativo da mettere la politica nelle condizioni di poter prendere delle decisioni».