Essere una Saharawi ha un duplice significato: culturale e politico. Il primo risiede nell’appartenenza culturale e nazionale, vale a dire l’appartenenza alla comunità che parla Hassaniyya e ha un’identità definita dalle sue radici afro-arabe. Il secondo significato, quello politico, configura il popolo Saharawi come punto finale del piano espansionista del Marocco.
Nella visione del Marocco le sue frontiere dovrebbero estendersi fino al Mali, includendo anche gran parte dell’Algeria. Un convincimento tacito e mai dichiarato pubblicamente. Questo risvolto politico riguarda anche il tradimento della Spagna, che continueremo a incalzare fino a che non si assumerà le sue responsabilità. Perché è stata la Spagna a svendere la sovranità del popolo Saharawi. Il che potrebbe far apparire i Saharawi delle vittime, ma non è così perché noi Saharawi non siamo pronti ad arrenderci e abbiamo intenzione di lottare fino alla fine.
Lottare per la nostra terra, che è come una seconda madre. Vivere nei campi profughi è difficile. Le condizioni sono disastrose a causa delle incursioni marocchine, i tentativi disperati di occupare i territori, tagliare gli aiuti internazionali, alterare il nostro assetto demografico e culturale, con forme di colonizzazione. Quanti vivono nelle zone più critiche ed esposte sottostanno a forme di oppressione e vendetta di ogni genere, non hanno mezzi per sostenersi, subiscono saccheggi e vengono privati dei loro beni. La vita nel Sahara Occidentale è simile alla vita di un soldato che si prepara a combattere, che abbandona la ricerca del benessere, prigioniero di una lotta esistenziale.
Un paradosso interessante del popolo Saharawi è il non essere un popolo della città, ma nomade. Una caratteristica legata senza dubbio alla geografia del suo territorio, ma ritengo che sia soprattutto per la sua natura. Un Saharawi è avido di libertà e incapace di sottomettersi. I viaggi continui hanno fatto del mio, un popolo che non conosce restrizioni. Le tribù del deserto, prima e durante il colonialismo europeo, erano orgogliose di questa loro capacità di non lasciarsi assoggettare, al punto che i morti in battaglia venivano visti come una prova del proprio spirito indomito. Facendo leva su questa nostra natura, i guardiani del popolo Saharawi lo strapparono da una fase di nichilismo politico con la rivoluzione e la costituzione Fronte Polisario. Nel periodo post-rivoluzionario, il senso di appartenenza alla propria terra si fece ancora più forte, assunse un carattere più strutturato, alimentando la resistenza contro i colonialisti spagnoli e francesi. La nostra terra rappresenta il simbolo della nostra stessa esistenza e della capacità di difenderla.
Noi stiamo facendo un grande sforzo per far conoscere la nostra storia, riscontrando un grande appoggio, solidarietà da molti gruppi, però ci rendiamo conto che il Marocco dispone di un forte potere mediatico, attraverso il quale modifica la realtà delle cose. Un potere funzionale a un progetto politico che gode di importanti appoggi internazionali, a cominciare dagli Stati del Golfo. Un progetto che alla base anche degli ultimi eventi, compresi gli scontri armati del 13 novembre. Prevedibili ma con l’unico effetto di penalizzare tanti innocenti.
In questa condizione, il sentimento dominante è la paura, che è anche una delle ragioni che mi spinge a restare. È qualcosa di istintivo, ma non posso lasciare che vinca perché proprio la paura potrebbe essere la causa dell’estinzione del mio popolo. Sì, è vero: ho paura e anche molta. Ma devo imparare controllarla e capire quando dovrei seriamente averne. Temo che arrivi il momento in cui sarà impossibile proseguire e che si ricrei una situazione simile a quella che seguì la firma degli accordi di Madrid del 1975, facendo riprendere la lotta armata. Desidero fortemente la pace. So che la guerra ha molte conseguenze, ma è più pericoloso fermare la resistenza: il mondo non può pensare che la nostra lotta pacifica sia espressione di debolezza o simbolo di resa.
Il popolo Saharawi si è fidato delle Nazioni Unite e della promessa di organizzare un referendum per l’autogoverno: una fiducia che possiamo definire, in realtà, ingenuità. So che esistono equilibri di potere, ma so anche che il diritto internazionale esiste per essere rispettato. Il diritto internazionale è uno dei mezzi che la comunità internazionale si è data per evitare il caos e mantenere la pace e la sicurezza. Di conseguenza, le Nazioni Unite devono assumersi le proprie responsabilità e smettere di fare il doppio gioco. In questo senso noi continueremo a lottare, in maniera pacifica o meno, per ottenere l’indipendenza. Il Polisario ha annunciato la ripresa della lotta armata dopo che l’esercitò marocchino ha attaccato il popolo Saharawi che protestava contro le violazioni degli accordi internazionale e il contrabbando attraverso il valico di Guerguerat. Crimini di cui anche l’Europa è corresponsabile. Abbiamo ripreso la lotta perché non ci fidiamo delle Nazioni Unite e tuttavia, accettiamo l’ipotesi di un referendum per dare all’Organizzazione l’opportunità organizzarlo, arrivando a una soluzione democratica della questione. Per quanto il contesto è oramai cambiato e le armi non taceranno fino a che non avremo respinto anche l’ultimo soldato marocchino. Purtroppo, alcuni organi delle Nazioni Unite sono diventati ostaggi di sé stessi, ma quando riusciremo a affermare, sia pure con la forza, i nostri diritti, il quadro cambierà. A noi interessa raggiungere l’indipendenza per consentire lo sviluppo globale del nostro popolo. Il mondo deve sapere che sottometterci alle pressioni marocchine non è una soluzione. Anzi: è proprio la sottomissione la causa del ritorno alla lotta armata che minaccia la stabilità della regione. E non è accettabile che la Spagna subisca il ricatto del Marocco attraverso il traffico di migranti, di droga o altro.
Il delegato del Sud Africa alle Nazioni Unite, Jerry Matjila, attuale presidente del Consiglio di Sicurezza ha ammesso gli sbagli compiuti nei confronti del nostro popolo, dichiarando inoltre che la ripresa della guerra costituisce un guasto nei piani dell’organizzazione. Si tratta di una presa di posizione destinata a avere conseguenze al pari della solidarietà internazionale che si è attivata dopo la decisione del Polisario di rispondere con il fuoco all’occupazione marocchina. Anche questo è un messaggio chiaro che produrrà i suoi effetti. Mi auguro quindi che il mondo si renda conto del grande errore compiuto tradendo la fiducia del popolo Saharawi.
Nel nostro futuro devono esserci libertà e indipendenza, senza mezze misure.
Traduzione a cura di Michela Trerotola