Lo scorso 3 ottobre, a Bari, è stato presentato lo studio epidemiologico commissionato dalla Regione Puglia a un gruppo di ricerca guidato da Francesco Forastiere, in collaborazione con il Dipartimento di epidemiologia del servizio sanitario regionale del Lazio, delle Asl di Brindisi e Taranto, di Arpa Puglia, Ares. L’incarico era finalizzato alla realizzazione della perizia epidemiologica che è agli atti giudiziari come prova di supporto alla perizia chimico-ambientale. Elemento tra i più determinanti per provare le inadempienze degli ex dirigenti Ilva e degli ex proprietari del gruppo industriale, accusati principalmente di aver provocato il disastro ambientale i cui effetti si riverberano ancora oggi.
I dati della ricerca sono stati già presentati in occasione del Congresso mondiale di epidemiologia svoltosi a Roma dall’1 al 4 settembre scorso. Francesco Forastiere, in particolare, è l’esperto epidemiologo che ha già collaborato come perito tecnico nel corso dell’incidente probatorio richiesto dal giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco. Il processo, ancora in corso, si è esteso ad alcuni dirigenti della pubblica amministrazione ed esponenti politici di rilievo. Tra questi spiccano i nomi dell’attuale sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, e dell’ex governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola.
RISULTATI AGGHIACCIANTI
I risultati del nuovo studio sono a dir poco agghiaccianti, ma in sostanza non aggiungono nulla di nuovo a quanto era già noto da tempo. “In sintesi l’indagine epidemiologica conferma i risultati degli studi precedenti rafforzandone le conclusioni, estende l’ambito di osservazione a diversi esiti sanitari e considera diversi aspetti metodologici. La lettura di questi risultati, anche alla luce della letteratura più recente sugli effetti nocivi dell’inquinamento ambientale di origine industriale, depone a favore dell’esistenza di una relazione di causa-effetto tra emissioni industriali e danno sanitario nell’area di Taranto.” Ma c’è di più. Lo studio esamina anche l’andamento delle mortalità e delle nuove incidenze di patologie in relazione alla produzione dell’impianto di Taranto.
“La produttività dell’Ilva ha avuto delle variazioni nel periodo 2008-2014 con un declino a seguito della crisi economica (2009), un successivo aumento negli anni 2010-2012, e un declino nel 2013-2014. All’andamento produttivo, e quindi alle variazioni delle emissioni, ha corrisposto un effetto sui livelli di inquinamento in prossimità dell’impianto e nei quartieri limitrofi. L’andamento della mortalità ha seguito in modo speculare l’andamento della produttività e l’inquinamento nei quartieri Tamburi e Borgo. Si è assistito a variazioni positive nei tassi di mortalità fino al 2012, a seguito di incrementi del PM10 di origine industriale, per poi osservare una riduzione sia dell’inquinamento che della mortalità nel 2013-2014. I modelli statistici hanno stimato un incremento percentuale del rischio di mortalità per incremento di 1microgrammo/m3 della variazione del PM 10 di origine industriale pari a 1.86% per la mortalità naturale (al limite della significatività statistica) e dell’8.74% per la mortalità per malattie respiratorie (95%IC 1.50-16.51).”
IL RISCHIO MORTALITÀ IN RELAZIONE ALLE POLVERI
Forastiere valuta poi l’aumento del rischio di mortalità in relazione all’aumento delle polveri sottili (PM10). “All’aumento di 10 microgrammi/m3 del PM10 di origine industriale, a parità di età, genere, condizione socioeconomica e occupazione, si è osservato un aumento del rischio di mortalità per cause naturali pari al 4%; mentre per l’SO2 l’incremento di rischio è del 9%. Per entrambi gli inquinanti si è osservata anche una associazione con la mortalità per cause tumorali e per le malattie dell’apparato cardiovascolare. Un aumento di rischio si è osservato anche per le malattie dell’apparato renale, statisticamente significativo per il PM10. Tra i residenti nell’area di Taranto si è osservata una associazione tra inquinanti e ricorso alle cure ospedaliere per molte delle patologie analizzate. In particolare, per effetto del PM10 e SO2 prodotti da Ilva – per incrementi di 10 microgrammi/m3 delle concentrazioni – sono stati osservati eccessi per malattie neurologiche, cardiache, infezioni respiratorie, malattie dell’apparato digerente e malattie renali. Le gravidanze con esito abortivo sono associate all’esposizione a SO2 delle donne residenti. Tra i bambini di età 0-14 si sono osservati eccessi importanti per le patologie respiratorie.”
Alla luce di questi risultati ci si aspetterebbero azioni drastiche da parte di coloro che sono chiamati, a vario titolo, a tutelare la salute pubblica. La vertenza sul caso Ilva, del resto, si ripresenta con una certa costanza nelle cronache dei quotidiani locali e nazionali, spesso condita da dichiarazioni e atti di discutibile efficacia e credibilità. Sembra però sempre più spesso una gara finalizzata a conquistare qualche pagina in più di visibilità. Il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, ad esempio, scrive al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, chiedendo di avviare un procedimento di validazione dei risultati, considerato quale passaggio necessario al fine di emanare un’ordinanza contingibile e urgente di chiusura dell’Ilva. Pura fantascienza. L’unica strada per chiudere l’Ilva è la revoca dell’Autorizzazione integrata ambientale, che può essere decisa dal ministero dell’Ambiente. Il Codice dell’ambiente (comma 9c dell’articolo 29decies) infatti recita che “in caso di inosservanza delle prescrizioni autorizzatorie, o di esercizio in assenza di autorizzazione, l’autorità competente procede secondo la gravità delle infrazioni: c) alla revoca dell’autorizzazione integrata ambientale e alla chiusura dell’impianto, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino situazioni di pericolo e di danno per l’ambiente.”
NUMEROSE INOTTEMPERANZE
Anche Ispra ha confermato le numerose inottemperanze reiterate dall’attuale gestione Ilva. Ma questo sembra non essere abbastanza indicativo per il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, che – in occasione di una recente iniziativa sul referendum costituzionale organizzata a Taranto – ha dichiarato che “se ci fossero rischi per i cittadini di Taranto sarei il primo a chiudere l’Ilva. L’approfondimento sui dati epidemiologici è assolutamente giusto perché dobbiamo dare la massima garanzia e certezza a tutti”. La certezza di ammalarsi e morire a causa dell’industria. Intanto l’attuale governatore pugliese, Michele Emiliano, partecipa e sostiene un convegno organizzato dall’Ordine degli ingegneri di Taranto, dal titolo “Ripensare l’industria siderurgica italiana. L’Ilva, attualità e prospettive”, con il quale si intende forse cancellare la parola “ambientalizzazione” dal vocabolario del suo partito. Al suo posto viene proposto il termine “decarbonizzazione”, che pare riscuotere maggiore successo. Una nuova trovata, che ricorda la stessa propaganda politica messa in campo dal suo predecessore Nichi Vendola: la legge anti-diossina e l’impianto all’urea. I cavalli di battaglia più noti. Il primo, rivelatosi un inganno. Il secondo, che avrebbe dovuto garantire l’abbattimento delle diossine in uscita dal camino E312, non è mai entrato in funzione. Ma intanto Nichi Vendola si era così assicurato il secondo mandato politico in Regione. Oggi, però, è uno degli imputati nel processo “Ambiente svenduto”.
DECARBONIZZAZIONE. COS’È?
Secondo i dati forniti dalla dottoressa Barbara Valenzano – già custode giudiziario dell’Ilva, nominata da Emiliano direttore del Dipartimento mobilità, della qualità urbana, delle opere pubbliche e del paesaggio – con 5 milioni annui di produzione di acciaio si può “pensare a una spesa di 1,2 miliardi di investimento per il rinnovo degli impianti con due linee produttive da 2,5 milioni di tonnellate annue. Servirebbero 2 miliardi per il completamento degli interventi Aia. I tempi di realizzazione sono stimati in circa 18 mesi”. Secondo Inchiostro Verde “l’area dell’impianto sarebbe un ottavo dell’esistente. Il pre-ridotto poi può essere usato per esportazione e sostituzione dell’acciaio di prima fusione in altre acciaierie. Con la capacità produttiva autorizzata per Ilva, ci sarebbe bisogno di 3 miliardi di mc di gas annui e di 38.000 GW ora/annui. Tap porterebbe in Puglia 10 miliardi di metri cubi in un primo momento, con il secondo step arriverebbe a 20 miliardi di mc. Spostando Tap a Brindisi sarebbe anche più facilmente alimentabile l’Ilva, invece di far solo passare il gas verso il nord Europa e pensare che all’attuale livello produttivo ne basterebbe solo 1,5 miliardi di metri cubi di gas. Con un terzo della produzione elettrica da fonti rinnovabili pugliesi poi si potrebbero alimentare i forni. Gli interventi palliativi previsti dall’Aia non sarebbero compatibili con i costi attuali che presentano una perdita di 50 milioni di euro al mese”.
In altre parole, il progetto punta a sostituire il carbone con il gas. Un semplice cambio di combustibile fossile. Fonte di approvvigionamento sarà il gas trasportato dal Tap (Trans adriatic pipeline), il gasdotto che dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per approdare in Italia, nella provincia di Lecce, permettendo l’afflusso di gas naturale proveniente dall’area del mar Caspio. Proprio su questo progetto il presidente della Regione, Emiliano, si era pubblicamente espresso, schierandosi al fianco dei comitati No Tap. Qualcosa, dunque, non torna. Ma tra una dichiarazione populistica e l’altra, si comprende che il suo vero obiettivo sembra sia quello di portare avanti una battaglia politica contro il premier Matteo Renzi all’interno della segreteria nazionale del Partito democratico. Il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Armando Zambrano, interrogato sul nuovo progetto, ha dichiarato: “Siamo convinti che non esista una soluzione univoca in grado di mantenere gli impianti dell’Ilva così come sono, risolvendo nello stesso tempo i gravi problemi di ordine ambientale e di salute che si sono generati nei decenni. Se si intende fare fronte ad una grave crisi di tipo ambientale, occorre pensare a nuove soluzioni di tipo tecnologico che cambino, almeno in parte, il processo produttivo dell’Ilva. D’altra parte esistono ormai dei vincoli esterni che condizionano in modo inequivocabile non solo Taranto, ma l’intera industria siderurgica italiana. Vincoli dei quali non si può non tenere conto nell’elaborare una strategia per il futuro. Riorganizzare il complesso processo produttivo del polo siderurgico di Taranto è possibile, anche e soprattutto in un’ottica di decarbonizzazione, sebbene per il momento, nell’attuale delicata fase di esame delle due offerte di Arcelor Mittal-Marcegaglia e di Acciaitalia, presumiamo che questo aspetto sia ancora secondario. Ma in un orizzonte di medio periodo la questione della decarbonizzazione sarà ineludibile, ed è bene che lo sia.”
Sulla proposta della Regione Puglia circa l’utilizzo del pre-ridotto, Zambrano ha poi spiegato che “il Consiglio nazionale degli ingegneri non intende promuovere o sostenere nessuno specifico orientamento, idea o proposta legata al complesso caso dell’Ilva. Siamo coscienti, però, del fatto che il territorio, l’ambiente ed i lavoratori di quest’area importante del nostro Paese necessitano di un intervento sostanziale e che molte soluzioni passano per un dialogo sia di tipo politico che tecnico.”
Un dialogo in verità monco giacché è mancata, tra le altre, la voce di chi reputa il progetto tecnicamente irrealizzabile. Dopo l’era dell’ambientalizzazione, si entra ora in quella della “decarbonizzazione”. Intanto l’emergenza sanitaria dilaga inesorabile e a pagarne le conseguenze sono soprattutto i bambini. La politica tergiversa, prende tempo, tiene dibattiti e convegni, veste maschere e gioca ruoli. E forse non è un caso che, come sede del convegno, sia stato scelto proprio un teatro. Allora, si apra il sipario.