“Vasi comunicanti”, il rapporto della Caritas su povertà ed esclusione sociale in Italia e alle porte dell’Europa – presentato a metà ottobre – racconta “una vicenda umana senza precedenti”. E scatta una fotografia nera del Sud Italia.
Incrociando i dati Istat con quelli dell’associazione per lo Sviluppo industriale del Mezzogiorno (Svimez), l’incidenza della povertà assoluta nel nostro Paese non ha, appunto, precedenti. Nelle regioni del Sud “si concentra il 45,3 percento dei poveri di tutta la nazione”. Penalizzate principalmente dalla crisi lavorativa. Dal 2008 ad oggi, infatti, “sono andati persi 576 mila posti di lavoro, pari al 70 percento delle perdite di tutta Italia; i livelli occupazionali risultano i più bassi registrati dal 1977 (5,8 milioni unità).” Se le famiglie maggiormente in difficoltà sono quelle in cui il capofamiglia è in cerca di un’occupazione (19,8 percento), non va meglio – anzi è in peggioramento – la situazione di chi ha un’occupazione, caratterizzata da sotto-occupazione e bassa remunerazione. È il caso delle famiglie di operai. Per loro la povertà è salita all’11,7 percento. Una classe sociale che potremmo definire classe di mezzo. Tra la classe che va dai 18enni ai 34enni (dopo quella dei minori è la classe con l’incidenza più alta) e la classe dei 65enni e più (per la quale l’incidenza è più bassa).
Il rapporto della Caritas spiega questo aspetto definendo la povertà “inversamente proporzionale all’età”. Una definizione preoccupante se confrontata con il periodo pre-crisi, ovvero il 2007, anno in cui il trend era esattamente inverso rispetto ad oggi: “l’incidenza della povertà assoluta andava tendenzialmente a crescere all’aumentare dell’età”. Insomma, giovani e poveri.
Eppure, scorrendo in anteprima i numeri e le tabelle dello Svimez sull’economia del Mezzogiorno sembrerebbe esserci stata, per il 2015, una crescita – per tutte le regioni – “conseguente all’annata agraria favorevole (incremento di valore aggiunto del 7,3 percento, ndr), al turismo (probabilmente legata alle crisi geopolitiche nell’area del Mediterraneo che hanno dirottato parte del flusso turistico verso il Sud d’Italia, ndr), all’accelerazione della spesa pubblica per la chiusura del ciclo di programmazione dei Fondi europei 2007-2013 (per evitarne ovviamente la restituzione, ndr).”
Non ci è dato sapere quanto il vincolo ed il tradizionale salvagente dei Fondi europei, spesso speculativo – che non significa certamente benessere e ricchezza – rappresenti un volano di consolidamento economico. Così come, in questo momento, non conosciamo la destinazione di tali risorse. Perché imbattersi nelle burocrazie regionali implica tempi lunghissimi.
Sta di fatto che lo stesso Svimez, sottolinea come “il risultato per molti versi eccezionale raggiunto nel 2015, non bisogna dimenticarlo, ha solo in misura molto parziale ridotto il depauperamento delle risorse del Mezzogiorno e il suo potenziale produttivo”. Nella sostanza, la “forte riduzione degli investimenti”, la diminuzione della capacità industriale (di sussidi e sussistenza imprenditoriale), le migrazioni di capitale umano, “i minori flussi in entrata nel mercato del lavoro” e la bassa crescita non rappresentano certamente una garanzia per il mantenimento del “ritmo di crescita registrato nel 2015”. Un orientamento negativo che – sempre in ottica benessere – andrebbe incrociato, ancora una volta, con “il permanere di fenomeni di povertà relativa” che ha comportato la mancata crescita della spesa alimentare. Sul lungo periodo, infatti, il calo cumulato dei consumi – dal 2008 al 2015 – è stato pari al 14,8 percento, “risultando significativamente maggiore di quello, pur importante, avutosi nel resto del Paese (-10 percento)”. La causa è sempre la stessa: “persistente impatto della peggiore crisi del dopoguerra”, caduta dei redditi e tracollo dell’occupazione.