Il 28 marzo 2018, Nicola Montanaro, 63enne originario di Avella – in provincia di Avellino – muore in seguito alle complicazioni di un tumore gastro-intestinale. Nicola è la ventiquattresima vittima del lavoro falciata dall’amianto blu – il più letale – respirato nei fatali anni trascorsi alle dipendenze della ex Isochimica spa, una fabbrica di scoibentazione di vagoni-treno aperta, negli anni Ottanta, a qualche centinaio di metri dalla stazione ferroviaria di Avellino.
Nicola Montanaro, 63 anni, originario di Avella – in provincia di Avellino – è morto nello stesso giorno in cui andava di scena l’ennesimo rinvio delle udienze del processo Isochimica. Iniziato nel 2016, e attualmente in corso, il processo intende mettere la parola fine alla storia di un disastro immane, ambientale e umano, e restituire giustizia alle vittime del mostro di Borgo Ferrovia: i lavoratori, l’intera comunità avellinese e l’Irpinia post-terremoto.
L’ARRIVO DELLA ISOCHIMICA
Il 26 maggio 1982 il Consorzio dell’Area di sviluppo industriale della provincia di Avellino delibera l’assegnazione di un lotto di terreno di 31.159 metri quadrati alla società Isochimica spa dell’ingegnere Elio Graziano, con sede a Fisciano (Salerno), per l’edificazione di una struttura destinata alla produzione e messa in opera di isolamenti chimici termo-acustici in sostituzione dei materiali, a base di amianto e lana di vetro, precedentemente installati su carrozze provenienti dalle officine di Ferrovie dello Stato. Nel novembre successivo, lo stesso Consorzio esprime parere positivo al progetto che prevede l’edificazione di 15.200 metri quadrati di fabbricati: due costruzioni destinate alle attività amministrative e due capannoni per le attività produttive di smontaggio, scoibentazione, ricoibentazione e rimontaggio dei vagoni trattati.
Insomma, mentre i cantieri della ricostruzione fervono e le ombre purulente dei prefabbricati pesanti si allungano all’orizzonte di quelle che diventeranno le periferie di Avellino, altre vestigia di morte prendono gradualmente forma nel cuore di un popoloso quartiere del capoluogo irpino, anche in questo caso – come già era stato per lo scandalo dei prefabbricati – con l’avallo dell’amministrazione comunale a trazione democristiana che, nel febbraio del 1983, visti i pareri favorevoli di Asl e Comando dei Vigili del fuoco, ufficializza il proprio benestare all’operazione. Comincia così la drammatica vicenda di circa 330 operai – più della metà dei quali risulterà poi affetta da patologie asbesto-correlate, ovvero causate dall’esposizione all’amianto – e di un’intera città che non ha mai acquisito piena consapevolezza dei danni prodotti da un’azione politica per certi versi persino più devastante della furia scatenata dalla natura la sera del 23 novembre 1980, il giorno e l’anno del sisma. E se la Eternit di Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, è divenuta il motore di un percorso di ricostruzione di un equilibrato rapporto tra uomo e ambiente, guidato da una politica del bene comune, la ex Isochimica di Avellino è invece stata, a lungo, oggetto di un corrosivo lavorìo di rimozione dalla pubblica coscienza, condotto dalla stessa politica che ha scritto la storia del fallimento post-terremoto.

Foto: L’ex Isochimica // Giulia D’Argenio
SOTTO PROCESSO
La storia della Isochimica è finita sul banco degli imputati con il cambio di vertice, nel 2012, alla Procura della Repubblica di Avellino. L’insediamento dell’ex pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Rosario Cantelmo, ha di fatto segnato una svolta assoluta nella vicenda giudiziaria dell’impresa di Borgo Ferrovia, dichiarata definitivamente fallita ai primi di gennaio 1990, con sentenza del Tribunale di Avellino.
“Signor giudice la invidio perché, dopo venticinque anni, lei sarà il primo ad avere la possibilità di dare una risposta di giustizia ai lavoratori Isochimica.” Così Rosario Cantelmo in quella che può a giusto titolo considerarsi una storica requisitoria tenuta, nel giugno del 2016, durante l’udienza preliminare che ha dato, finalmente, avvio al processo Isochimica. Ventisette le persone, a vario titolo e per diversi livelli di responsabilità, rinviate poi a giudizio: amministratori, tecnici e, naturalmente, il proprietario della società, Elio Graziano, venuto a mancare nel marzo 2017.
“L’esposizione professionale all’amianto è di per sé nota, incontrovertibilmente accertata e principale causa delle patologie benigne e/o maligne asbesto-correlate.”
Si tratta di un estratto della premessa alla consulenza realizzata, su incarico della Procura della Repubblica, dai professori Gualtiero Ricciardi e Umberto Moscato (Facoltà di medicina e chirurgia Gemelli dell’Università del Sacro Cuore di Roma) per accertare le condizioni di salute e il pericolo di vita che incombe sugli ex dipendenti della fabbrica avellinese.
Acclarato, dunque, il rapporto di causa-effetto tra la velenosa fibra e l’insorgere di determinate patologie, le circostanze ricostruite da inquirenti e consulenti si spiegano di conseguenza.
“La tipologia di lavorazione effettuata, nell’assenza pressoché totale (come risulta dalle denunce rese dai lavoratori, dagli atti investigativi e dai controlli e prescrizioni eseguiti) dei dispositivi di protezione individuale […] e quelli collettivi (carenza nel sistema di aspirazione, nei sistemi di abbattimento delle polveri, nelle strutture di decontaminazione…) rappresenta una condizione a maggior rischio per lo sviluppo di patologie” e, di fatti, “le alterazioni radiologiche riscontrate in molti dei lavoratori della ditta Isochimica (ispessimenti e placche pleuriche) […] sono riconducibili a polveri e fibre di asbesto” assimilate nel corso dei turni di lavoro, svolti senza che chi di dovere si preoccupasse di garantire le dovute misure di sicurezza, o la tutela sanitaria necessaria.
“Una diagnosi precoce, possibile solo in presenza di una attenta e mirata sorveglianza sanitaria, seguita allontanamento del soggetto dal rischio lavorativo, avrebbe potuto ridurre, pur non annullandola, la probabilità di comparsa di lesioni maggiormente invalidanti.”
La conclusione è, purtroppo, una condanna a morte senz’appello: se “è possibile affermare, alla luce delle attuali evidenze e dei dati scientifici, che per tutti i soggetti esposti sussiste pericolo di vita poiché anche la malattia asbesto-correlata non maligna non può regredire ma solo evolvere aggravandosi e coinvolgendo più organi e funzioni.”
Questo nella migliore delle ipotesi: le peggiori, invece, contemplano il rischio, per chi è stato esposto di sviluppare patologie maligne le più ricorrenti delle quali sono il mesotelioma pleurico e il carcinoma polmonare. Ma, ad oggi, non è possibile escludere con certezza neoplasie in altre parti del corpo.
LENTAMENTE SI MUORE
Una sorte segnata, dunque, quella di larga parte degli ex dipendenti dell’Isochimica, epilogo orrendo di una vicenda già segnata da un lungo elenco di lutti – 24 per la precisione – chiuso qualche mese fa da Nicola Montanaro. Centotrentatré sono le cartelle cliniche depositate in Tribunale dalla Procura nel corso dell’udienza del 27 aprile 2018: elementi probatori acquisiti in sostituzione delle deposizioni di altrettanti teste dell’accusa, che sarebbero andati ad aggiungersi agli altri sette già ascoltati in circa un anno di dibattimento. Una corsa contro il tempo perché sia fatta giustizia: per chi non c’è più, ma anche e soprattutto per chi ancora attende di vedere soddisfatti anni di lotte condotte dentro e fuori i cancelli della fabbrica. I racconti dei lavoratori sugli anni alla ex Isochimica hanno, in taluni casi, dell’inverosimile: i contratti ritardati; i licenziamenti continui per sedare le proteste; la selezione dei lavoratori più giovani e in forze – e possibilmente meno educati – schierati in plotoni come quelli dei condannati; il lavoro svolto tenendo indosso gli abiti quotidiani, riportati a casa pregni di fibre fluorescenti e puzza di solvente; l’amianto grattato via – soprattutto nei primi anni di attività – praticamente a mani nude, senza null’altro che un raschietto, e privi di qualsivoglia protezione se non un fazzoletto bagnato o una mascherina di carta; le carrozze completamente lerce, coi wc sporchi da smantellare prima dello smontaggio; il collega imbracato e calato a testa in giù per sturare il silos di stoccaggio della fibra scoibentata, quando otturato; le pause pranzo in un ambiente completamente insalubre; la guerra tra poveri innescata da Graziano, e dai suoi collaboratori, per evitare che le proteste rallentassero i ritmi di lavoro, assoldando altri disperati che lavorassero di notte; le sofferenze fino alla prima sospensione delle attività della fabbrica, il 15 settembre 1988, a seguito di una delibera della giunta comunale del 9 settembre che la definisce “industria insalubre di prima classe”. E poi ancora le connivenze dell’Asl e l’indifferenza dell’Inail; il mancato riconoscimento dell’invalidità e degli indennizzi correlati e, soprattutto, l’ostracismo della comunità avellinese, con quella sua sottile propensione alla calunnia che l’ha condotta a sostenere che gli operai dell’Isochimica altro non sono che dei venduti o degli ingrati: uomini lasciatisi comprare da Graziano o che, con le loro proteste, hanno sputato nel piatto nel quale hanno mangiato, rivoltandosi contro un benefattore della città. Per tutti, gli operai della Isochimica sono stati a lungo stati – e per qualcuno lo sono ancora – quelli che “se l’erano cercata”. Quelli che hanno cercato la morte, come Luigi Maiello, soffocati da una pleura ispessita come una cotenna di maiale.
L’ODISSEA DELLA BONIFICA
La verità è che Avellino non sa, o non ha mai voluto prendere pienamente coscienza, dell’entità di un disastro che incombe da anni sulla sua quotidianità e che non riguarda solo il rione popolare di Borgo Ferrovia.
Negli anni di attività, dal 1983 al 1990, si stima che nei capannoni della ex Isochimica siano state trattare 2.239 carrozze ferroviarie, con la rimozione di una quantità di amianto blu calcolata intorno alle 2.276 tonnellate. Di queste, fin dal 1989, è stato accertato che 495 metri cubi, sciolti o chiusi in sacchi neri dell’immondizia, siano stati interrati in tre diverse fosse collocate a circa 1,5 metri sottoterra per 6 metri di profondità, per una superficie contaminata di 165 metri quadrati. Una pratica, quella dell’interramento, che non ha fortunatamente contaminato la falda acquifera sotterranea dove, tuttavia, sono stati riscontrati livelli superiori alla norma di alluminio, piombo, ferro e manganese. Un’altra parte della letale sostanza, è stata inertizzata mescolandola al cemento e ricavandone 347 cubi dell’altezza di 1,2 metri per un peso di circa mille tonnellate, così come registrato nella perizia condotta, nel 1996, dal professore Gaetano Volpicelli e dal perito industriale Ezio Bontempelli. E proprio i cubi di cemento-amianto, che ancora nel giugno 2002 vengono indicati dai professori Gaetano Cecchetti e Benedetto De Vivo (incaricati dal Comune di Avellino di redigere un progetto-piano preliminare di bonifica) quale “fonte di rischio più immediato”, sono un simbolo della nebulosa vicenda della mancata bonifica del sito, che si dipana nell’arco di circa 23 anni: dal 1990 al 2013. Un’area nel cuore di un popoloso quartiere e a ridosso della zona industriale del capoluogo irpino che si trova a una distanza media dall’abitato e dagli altri opifici di circa 20m circa. Dopo il censimento di fine anni Ottanta, il nuovo piano di lavoro del gennaio 2008 attesta la presenza di 497, più 20, più 8 cubi di cemento-amianto, per un totale di 525 conglomerati da smaltire. Uno smaltimento mai avvenuto, nonostante le dichiarazioni effettuate, nel corso degli anni, dai soggetti incaricati delle operazioni.
Il primo step, la messa in sicurezza dell’area, viene affidata per 40 mila euro alla società Geisa srl di Salerno nel maggio 2004, mentre a settembre 2004 l’amministratore unico della ditta Eurokomet srl, Biagio De Lisa, ottiene in locazione l’area dello stabilimento con l’impegno ad eseguire, a proprie spese, i lavori di bonifica entro due anni dalla stipula del contratto, esonerando da ogni responsabilità la curatela fallimentare, allora affidata all’avvocato Leonida Gabrieli.
La consegna formale degli immobili a De Lisa avviene a novembre, mentre a giugno 2005 la curatela fallimentare comunica che l’inizio delle attività è fissato entro il 15 luglio. A propria volta, il 27 aprile 2007, l’amministratore della Eurokomet stipula, mediante scrittura privata, un contratto con la società Team Ambiente spa di Massa, per affidarle il proseguimento dei lavori di bonifica. Nel gennaio 2008, ancora, la società toscana conferisce un ulteriore incarico per la redazione del piano di lavoro generale alle ditte Ellegi srl di Firenze e Teknova srl di Milano, salvo poi comunicare all’Azienda sanitaria locale di Avellino e alla Eurokomet, con una nota di agosto, la risoluzione dei contratti con queste due società e l’affidamento dei lavori di bonifica alla Pescatore srl di Mercogliano, hinterland avellinese, la quale, a propria volta, provvede, il 3 luglio 2009, a comunicare all’Asl la data di avvio delle operazioni per il risanamento del sito fissata al 6 dello stesso mese, tre giorni dopo. Le attività, così come registrato dal sul giornale dei lavori, vengono sospese, fino a data da destinarsi, il 16 febbraio 2010.
Il 25 maggio, interviene una nuova scrittura privata di transazione tra Biagio De Lisa, quale rappresentante della Eurokomet, Francesco Barbieri, amministratore della Pescatore, e Giovanni Rosti, in rappresentanza della Team Ambiente, nella quale la Eurokomet dichiara di affidare alla Hge Ambiente srl, ramo aziendale di Pescatore, il prosieguo dei lavori di bonifica consistenti, ancora, nell’eliminazione delle coperture in amianto dei due capannoni e l’aspirazione di eventuali fibre presenti al loro interno, con successivo lavaggio e il trasporto in discarica autorizzata dei materiali in sito contenenti amianto e, naturalmente, dei famigerati blocchi di cemento, diventati, nel frattempo, 681. La cifra emerge durante una riunione tenutasi, l’11 giugno 2010, al Comune di Avellino in presenza dell’allora vicesindaco Gianluca Festa e nel corso della quale Biagio De Lisa in persona comunica una contestuale e conseguente revisione a rialzo delle stime di spesa per il completamento dell’intervento. In quella stessa occasione, il dottor Michele De Piano, direttore dell’Unità operativa di igiene e medicina del lavoro dell’Asl, annuncia l’avvenuta messa in sicurezza di 48 conglomerati contenenti amianto friabile, i più pericolosi, cancellando così la minaccia più imminente alla salute pubblica. Le ultime comunicazioni della Hge Ambiente sullo smaltimento dei rifiuti pericolosi, relative per altro al loro trasferimento presso proprie strutture di Manocalzati – nella Valle del Sabato – risalgono alla primavera del 2012: nel 2004, la Eurokomet aveva dichiarato che le operazioni di bonifica si sarebbero concluse entro due anni dalla stipula del contratto.
De Piano, De Lisa, Barbieri, Rosti, il curatore fallimentare Gabrieli, ma anche gli amministratori della Hge Ambiente, Francesco Di Filippo, e della Geisa, Giovanni D’Ambrosio, figurano tutti tra i 27 imputati del processo che, dopo le primissime udienze ad Avellino, è stato trasferito presso l’aula bunker del carcere di Poggioreale a Napoli, in ragione dell’inidoneità del Palazzo di giustizia del capoluogo irpino ad ospitare un procedimento di tale portata per il numero di parti coinvolte. Una vicenda, quella della bonifica, fatta di denari pubblici dispersi attraverso infiniti rivoli di inadempienze speculatorie che hanno esposto la salute dei cittadini ad un rischio elevatissimo e ancora non del tutto sanato: malgrado, infatti, il decreto di sequestro preventivo del sito, emesso dalla Procura della Repubblica il 30 maggio 2013, perché “in atto un pericolo concreto per la salute pubblica di dispersione di fibre di amianto”, la bonifica dell’area è (ri)partita solo nel 2017, con la messa in sicurezza dei famigerati cubi e la rimozione, in agosto, del silos per lo stoccaggio dell’amianto, alto 20 metri e pesante 37 tonnellate, fino a quel momento svettante al di sopra dei capannoni A e B. Un’operazione, la bonifica, che oggi vale 13 milioni di euro, messi dalla Regione Campania a disposizione del Comune di Avellino, il cui sindaco è stato nominato custode giudiziario di un’area intorno alla quale, da sempre, si sono movimentate quantità enormi di denaro.

Foto: L’ex Isochimica // Giulia D’Argenio
AFFAIRE ISOCHIMICA
Settantuno miliardi e 325 milioni di lire: questo il giro d’affari messo in moto dalla ex Isochimica di Elio Graziano, l’imprenditore dello scandalo delle “lenzuola d’oro” collegato ad un altro appalto miliardario affidatogli da Ferrovie dello Stato per la fornitura di biancheria per i treni a prezzi gonfiati e fuori mercato. Dieci i contratti tra la società dell’ingegnere ed ex-presidente dell’Avellino Calcio e i legali rappresentanti di FS, per un periodo di tempo che va da novembre 1982 a giugno 1989. Rinnovi continui, zeppi di sovrapposizioni e anomalie, le più macroscopiche delle quali riguardano il mese di giugno del 1986, pagato quattro volte, tre delle quali in appalti del valore complessivo di 2 miliardi e 100 milioni. Ma non sono queste le uniche storture.
Il primo appalto, infatti, che prevede la scoibentazione di 10 carrozze, copre il periodo 10 novembre 1982-31 marzo 1983. La concessione sindacale che approva il progetto di fabbrica è del 26 febbraio 1983: i lavori di costruzione sono ultimati nella primavera successiva. Le discrepanze temporali sono facilmente spiegate: la scoibentazione di un primo lotto di carrozze è stata effettuata in pieno giorno, sui binari di manovra – i cosiddetti binari morti – della Stazione ferroviaria di Avellino, all’epoca in funzione a pieno regime, con un flusso costante di viaggiatori in arrivo e in partenza. Il tutto, sono concordi tutti i testimoni, con l’avallo del capostazione dell’epoca, coinvolto in un procedimento per corruzione continuata andato in prescrizione nel 1993. Solo tre anni dopo la totale dismissione dell’opificio. Di fatti, dopo la sospensione amministrativa del settembre 1988, a dicembre è il pretore di Firenze, Beniamino Deidda a chiudere definitivamente, imponendo la contestuale cessazione di ogni attività, i capannoni A e B della Isochimica di Avellino. Lo stesso pretore che, anni prima, constata la pericolosità della lavorazione, ne aveva imposto l’interruzione sul territorio di sua competenza. È così che Ferrovie dello Stato è costretta a delocalizzare e per farlo sceglie il Sud: una piccola cittadina meridionale messa in ginocchio da un terremoto e dalla disoccupazione. Un campo, se non alleato, certamente non particolarmente ostile.
Ma l’intervento di Deidda ancora non basta. Probabilmente resta ancora una fetta di lavoro da ultimare e andare altrove non avrebbe senso. Ecco allora che, nel corso del 1989, la Isochimica, alle porte di un fallimento, si trasforma in un’altra società denominata Ersit. Un nuovo cartello all’ingresso pedonale della fabbrica segnala un cambio d’abito, rapido ed effimero, per il mostro di Borgo Ferrovia, chiuso per sempre un anno dopo.