“La vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo”.
Papa Francesco – a marzo 2013 – nel pronunciare queste parole nel corso dell’Omelia per l’inizio del ministero petrino, ha aperto una lunga riflessione sull’ambiente e tracciato la strada di una enciclica “verde”, di imminente uscita. Un pensiero forte, che è anche ammonimento, sulla tutela e sul rispetto del creato, del suolo, dell’aria e dell’acqua. Ed è percorrendo – lungo tutta la Penisola – la storia, i simboli, le tracce che il creato e l’acqua hanno lasciato e lasciano sulla terra – e dentro di essa – che si scoprono mondi sommersi, intatti e al tempo stesso minacciati. Come quello della Basilicata, il cuore verde del Sud.
Una regione che, con i suoi 576 mila abitanti, è al penultimo posto in Italia per densità di popolazione. Ma al primo posto in Europa per il giacimento in terraferma di greggio che scorre nelle sue viscere. Una contraddizione in termini che ne fa un caso unico nel Continente. Perché, quella che doveva essere l’opportunità di sviluppo economico di un territorio tra i più depressi del Meridione, si è rivelata esclusiva fonte di ricchezza per l’indotto petrolifero e sfruttamento massivo per le comunità locali. Con un picco produttivo di 85 mila barili di greggio estratti ogni giorno nella valle dell’Agri, la Basilicata contribuisce alla copertura di circa l’8 per cento del fabbisogno energetico nazionale. Una percentuale destinata a crescere – a raddoppiarsi – grazie a nuove norme dello Stato, varate di recente dal governo Renzi, sulla falsa riga della Strategia energetica nazionale voluta dal governo Monti nel 2012.
Infatti, il punto di svolta per il destino della Basilicata – quello che i comitati cittadini e le associazioni attive sul territorio definiscono il “punto di non ritorno” ed “il sacrificio finale” – andrebbe collocato nella stesura del decreto n.133 del 12 settembre 2014, meglio conosciuto come “Sblocca Italia”, riconvertito poi in legge – la n.164 dell’11 novembre 2014 – con doppio voto di fiducia, sia alla Camera sia al Senato. La legge “Sblocca Italia” – che attribuisce “carattere di interesse strategico […] di pubblica utilità, urgenti e indifferibili” a tutti i progetti di prospezione, ricerca e coltivazione di gas e greggio in terraferma ed in mare, per la realizzazione di gasdotti di importazione di gas dall’estero, di terminali di rigassificazione, di stoccaggi sotterranei di gas naturale ubicati in Pianura Padana ed infrastrutture della rete nazionale di trasporto gassifero – ha aperto scenari inquietanti per il territorio della Basilicata, a breve e medio termine. Si prospetta, infatti, il rischio di una vera e propria occupazione per gran parte della superficie regionale, che si estende per 9.992 chilometri quadrati. Se le 20 concessioni di coltivazione di idrocarburi già operanti in Basilicata “impegnano” una superficie di 1.993,99 chilometri quadrati, altre 18 istanze di permesso di ricerca interessano una superficie territoriale “petrolizzabile” pari a 3.856,63 chilometri quadrati, che interesserebbero il territorio di 95 Comuni lucani. Progetti sui quali a decidere sarà lo Stato, per mezzo dei ministeri competenti, e non più gli Enti locali.
In questo modo la Regione – che a differenza di altre 7 Giunte regionali (Abruzzo, Calabria, Campania, Puglia, Lombardia, Marche, Veneto) ha ritenuto di non dover impugnare dinanzi la Corte Costituzionale l’articolo 38 della legge “Sblocca Italia” e degli emendamenti alla stessa introdotti dalla legge di “Stabilità” – vedrebbe il proprio territorio sacrificato ad hub dell’energia, in un ruolo cruciale per la programmazione energetica del nostro Paese, sbilanciato verso il continuo sfruttamento delle fonti fossili, a scapito della valorizzazione del paesaggio, dell’agricoltura e della tutela delle risorse idriche locali. La soglia di barili estraibili ogni giorno alla quale puntano le compagnie petrolifere – Eni e Total in primis – sono di 104 mila barili da estrarre nella Valle dell’Agri ad opera della prima e di 50 mila barili da estrarre nella Valle del Sauro, ad opera della seconda. Tutto entro il 2016.
DALL’AGRICOLTURA ALL’INDUSTRIA. UN TERRITORIO ARIDO
La storia del petrolio in Basilicata, fin dall’inaugurazione del Centro olio dell’Eni di Viggiano, in provincia di Potenza – avvenuta nel 1996 – è la storia di piccole e diffuse economie locali, molte a conduzione familiare, come ad esempio l’agricoltura e l’allevamento, che hanno ceduto il passo all’attività industriale, spezzando quella distribuzione della ricchezza che ha rappresentano fino a 10 anni fa la vita per intere famiglie. Nell’ultimo decennio quasi 24 mila aziende agricole lucane hanno chiuso. Ovvero il 32% del totale. 26 mila, invece, gli ettari di superficie in meno coltivata che hanno lasciato spazio – come sta venendo in questi mesi – per garantire la crescita e l’espansione del Centro olio, vitale per il raddoppio delle estrazioni petrolifere. Secondo l’Istat, le dinamiche demografiche nei Comuni interessati dall’indotto del petrolio sono state peggiori che nel resto della regione: un calo della popolazione del 6,5% contro il 3,4 dei restanti comuni lucani tracciano un quadro desolante di un territorio in cui il 25% delle famiglie rasenta la povertà. Questo, nonostante le royalties incassate da Regione e Comuni tra il 2001 e il 2012 siano state pari a circa un miliardo di euro, destinate però per spese correnti e “non per sviluppo e lavoro”, come certificato dalla Corte dei Conti nell’aprile 2014. Royalties che continuano ad essere al centro della contrattazione tra Stato e Regione, trascurando quelli che potrebbero essere i costi ambientali e della salute.
IL POLSO DELLE COMUNITÀ
Come già documentato sul portale Qualenergia.it – ad ottobre 2014 – l’ultima indagine epidemiologica che ha fotografato lo stato di salute delle popolazioni residenti nelle aree interessate dalle estrazioni petrolifere risale all’anno 2000. Un progetto di supporto tecnico-scientifico e formativo allo sviluppo dell’Osservatorio epidemiologico regionale, frutto di una convenzione tra la Regione Basilicata e il Consorzio Mario Negri Sud, con l’obiettivo di implementare sistemi informativi orientati al monitoraggio sanitario delle comunità particolarmente esposte a rischi di inquinamento industriale. Le indagini, basate sulla valutazione delle schede di dimissione ospedaliera del triennio 1996-1998, utilizzabili per l’analisi epidemiologica degli eventi sentinella mediamente più gravi, riguardarono un territorio della Val d’Agri che all’epoca faceva registrare poco più di 11mila residenti. “L’analisi condotta – come è possibile leggere nella Relazione sanitaria regionale del 2000 – mostra […] tassi di ospedalizzazione urgente per eventi sentinella cardio-respiratori mediamente più elevati rispetto all’insieme regionale”. In particolare, nell’area della Val d’Agri furono registrati tassi di incidenza da 2 a 2,5 volte superiori alla media regionale di “asma, altre condizioni respiratorie acute, ischemie cardiache e scompenso”. Risultati preoccupanti se si considera che l’aumento significativo di alcune patologie cardio-respiratorie si è verificato dopo nemmeno 3 anni dall’entrata in funzione del Centro olio Eni di Viggiano, inaugurato nel 1996. Poi nulla più. Un vuoto epidemiologico che Giambattista Mele, medico e coordinatore dell’associazione “Laboratorio per Viggiano”, ha cercato di colmare con la Commissione di “Valutazione d’impatto sanitario” (Vis). Un progetto di vigilanza sanitaria e controllo dal costo complessivo stimato di 1.170.000 euro – che coinvolge i comuni di Viggiano e Grumento Nova, tra quelli maggiormente interessati dagli effetti pluridecennali dell’industria estrattiva – attuato dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa, in collaborazione anche con l’Istituto Superiore di Sanità e la Regione Basilicata. Ma la Commissione Vis – ufficialmente istituita nel 2009 – è ancora alla fase di screening, la prima delle 5 previste. Le cause del ritardo andrebbero attribuite a numerose opposizioni di carattere politico che hanno portato all’esclusione di alcuni membri di quello che dovrebbe essere un organismo indipendente, fortemente orientato a far emergere l’impatto delle attività estrattive sulle comunità locali. Invece, la Regione Basilicata con una delibera di giunta dell’11 novembre 2009 (la n.1984) approva il più costoso (2 milioni e mezzo di euro, ndr) progetto quinquennale “Salute e Ambiente”, naufragato dopo appena 2 anni e fortemente voluto dall’ex governatore Vito De Filippo, oggi sottosegretario alla Sanità del governo Renzi. Il progetto “Salute e Ambiente” nelle competenze dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) risulta essere in perfetta sovrapposizione con quello di “Valutazione d’impatto sanitario” dei Comuni di Viggiano e Grumento Nova, anche se dal Dipartimento ambiente dell’ISS ne sottolineano invece la complementarietà, rilanciando su una possibile istituzione di un “Tavolo permanente di interscambio tecnico-scientifico”. Ad oggi, uno stato di salute aggiornato della sola Val d’Agri non c’è. Gli ultimi dati disponibili – del 2011 – rappresentano, in forma aggregata, solo il confronto epidemiologico tra le macro-aree Basilicata e Italia. Lo stesso vale per il Registro regionale dei Tumori, istituito solo nel 2011 e non ancora accreditato.
CONSUMARE L’ORO BLU PER SFRUTTARE L’ORO NERO
Con l’aumento delle estrazioni petrolifere nelle Valli dell’Agri e del Sauro a farne le spese è l’acqua. Infatti – oltre all’elevato rischio di contaminazione dei bacini idrici strategici che attraversano la Basilicata e che alimentano anche altre regioni come la Puglia, tra i più importanti del Mediterraneo – i numeri del consumo di acqua è impressionante. Per estrarre 1 barile di petrolio sono necessari 8 barili di acqua, equivalenti a più di 1200 litri di acqua. Per estrarre, invece, i 154 mila barili di greggio ogni giorno si stimano 1.232.000 barili di acqua, ovvero 195.888.000 di litri al giorno. Che in un anno fanno 71.499.120.000 di litri di oro blu. E con l’aumento dei consumi di acqua, aumentano in proporzione i rifiuti di estrazioni e le acque di strato da smaltire. Attualmente le acque di strato smaltite, secondo il Local Report 2013 redatto dall’Eni, sono pari a 2.500 metri cubi al giorno, per un totale annuo di 90 milioni di metri cubi. Ancora miliardi i metri cubi di reflui reiniettati in 12 anni di attività nel sottosuolo. Da dove sono venuti, per la chiusura di un ciclo vitale per l’industria e mortale per il territorio.