L’evoluzione dell’economia energetica che coinvolgerebbe il presente e il futuro di Gela, con il progetto della raffineria verde, non va confusa con i danni, irreversibili, subiti da territorio e comunità dal punto di vista ambientale, sociale e della salute. Tutto quello che non va nella riconversione di Eni in Sicilia.
«Eni più biodiversità è meglio di Eni». Emilio Giudice sceglie l’ironia per spiegare l’impatto dell’azienda di Stato sui territori. Nel rovesciamento del martellante slogan pubblicitario del Cane a sei zampe c’è la chiave – secondo il direttore della Riserva naturale del Biviere – per comprendere quello che non va nel processo di riconversione dell’ex raffineria di Gela. Nel 2014 la scelta dell’amministratore delegato Claudio Descalzi di spegnere quei vetusti impianti («nei sei anni precedenti alla chiusura circa due miliardi di perdite», ha riferito l’ad alla scorsa assemblea degli azionisti) ha significato, in teoria, nuove prospettive per l’azienda e la popolazione. A partire dall’avvio nel settembre scorso della “bioraffineria” (le virgolette sono di Eni), fino ad arrivare alla costruzione di un nuovo gasdotto che condurrà il metano dal mare a terra. In mezzo, tanti progetti e tante promesse tra “circular tour”, coltivazioni sperimentali di mirabolanti gomme e mostre sulle navi greche – con i resti da ammirare dentro gli scatoloni del museo. In sei anni la cittadina siciliana che fu il cuore del sogno di industrializzazione del Sud, è stata intontita di parole. Mentre qui, come testimonia la quinta edizione dello studio Sentieri, si continua a morire di tumore. «Le aziende vanno valutate per quello che fanno, non per quello che dicono», ammonisce ancora Giudice.
IL VERDE GIÀ SBIADITO DELLA RAFFINERIA
Ci sono tutti, il 25 settembre 2019, all’inaugurazione della raffineria green che ha preso il posto del vecchio stabilimento petrolchimico: l’assessore regionale all’Energia e ai Rifiuti, Alberto Pierobon, il sindaco Lucio Greco, il vescovo Rosario Gisana e una lunga sfilza di autorità militari e civili. Tutti indossano i caratteristici elmetti gialli col logo del Cane a sei zampe. Tutti parlano di biocarburanti, di eccellenza italiana, di economia circolare. C’è però un convitato di pietra: nessuno lo cita ma è ben presente tra gli impianti. Si tratta dell’olio di palma, che alimenta da quel giorno la green refinery: almeno 700 mila tonnellate l’anno, secondo le stime dell’azienda. L’obiettivo dichiarato della multinazionale energetica è diventare “palm oil free” entro il 2023. Per questo Eni, dopo la Valutazione di impatto ambientale (Via), rilasciata dal ministero, ha presentato una proposta di modifica (in fase di valutazione).
«La Raffineria di Gela – rende noto l’azienda – completerà entro settembre 2020 l’impianto BTU (Biomass Treatment Unit, impianto di trattamento per le biomasse) che permetterà di alimentare gli impianti Ecofining anche con gli oli esausti di origine vegetale. Gli oli alimentari esausti, i grassi da lavorazione carni e lavorazioni ittiche prodotti in Sicilia potranno contribuire, in un’ottica di economia circolare a chilometro zero, alla produzione di componente per biodiesel, bionafta e biogpl.»
Dall’assessorato ai Rifiuti si apprende che in realtà non c’è un vero e proprio piano di rifornimento – come ad esempio avviene da anni a Porto Marghera attraverso la filiera gestita da RenOils, il consorzio nazionale degli oli e dei grassi vegetali e animali esausti.
Che i tempi sono ancora lunghi lo conferma la stessa Eni: «gli accordi con Regione e Anci Sicilia finalizzate a implementare nell’isola la raccolta degli oli vegetali usati e di frittura sono in fase avanzata di concretizzazione ma saranno solo un primo passo che poi dovrà essere condiviso da tutte le amministrazioni comunali, e soprattutto dalle aziende e dalle famiglie, per un corretto conferimento delle biomasse raccolte.»
Intanto si è scelto di partire con olio di palma proveniente dall’Indonesia. Nella richiesta di modifica degli impianti è la stessa Eni ad affermare che la sua lavorazione «presenta problematiche ambientali consistenti in termini di competizione con le produzioni agricole a finalità prettamente alimentare ed impronta di carbonio significative.»
I dubbi poi non riguardano esclusivamente la situazione attuale. Il sito di Porto Marghera consuma da solo circa il 50 per cento degli oli alimentari usati disponibili in Italia e, considerato che l’impianto gelese è più grande di quello veneziano, è facile prevedere che anche nel caso degli oli esausti Eni dovrà rifornirsi altrove.
«Non riteniamo che le tonnellate prodotte saranno sufficienti a coprire le quantità di lavorazione previste – conferma la multinazionale – pertanto le materie prime necessarie verranno acquistate sui mercati internazionali.»
Il nuovo modello industriale del Cane a sei zampe a Gela, insomma, prevede non più la lavorazione in loco delle risorse locali – petrolio e gas – ma l’approvvigionamento delle stesse da varie parti del mondo.
«È poi vero – osserva Emilio Giudice – che con le attuali tecnologie non si può neanche lontanamente recuperare il 100 per cento degli oli esausti. Nel libero mercato, d’altra parte, chi impedirebbe ad Eni di rifornirsi di olio dove c’è e costa meno? Quindi il rischio è che la città possa essere presto invasa da nuove puzze, dopo quelle degli anni passati dovuti alla lavorazione del pet-coke.»
Lo scarto del petrolio citato dal direttore del Biviere – un rifiuto industriale che a Gela, unico caso in tutto il mondo, per anni è servito ad alimentare la centrale termoelettrica – tocca un nervo scoperto della città. Quella battaglia, culminata nel 2002 prima col sequestro della magistratura e poi con una manifestazione a sostegno dell’azienda al grido di “meglio morire di cancro che morire di fame”, ha visto tra i protagonisti anche Virginia Farruggia. Un passato da volontaria di Legambiente e un presente da consigliera comunale nelle file del M5s, Farruggia cerca di coniugare ideali e realpolitik.
«Quel che è certo è che le cose non sono risolte: la raffineria è chiusa, il peso dell’inquinamento è minore, ma non possiamo pensare che l’alternativa sia la green refinery. Così come sappiamo che la fiamma delle torce di scarico non è certamente più quello derivante dalla lavorazione del pet-coke ma si tratta di metano. Però quella fiamma vuol dire che l’impianto non è a regime, lo stanno ancora tarando.»
- Foto: Il cosiddetto “cimitero delle trivelle”, dove vengono accatastati gli impianti di perforazione non più funzionanti // Andrea Turco
- Foto: Uno dei 90 pozzi attivi sparsi lungo la piana di Gela // Andrea Turco
- Foto: Discarica Cipolla, dove la contaminazione è ancora attiva. L’area è interdetta dal 2016 ma non è mai stata bonificata // Andrea Turco
- Foto: L’ex raffineria vista dal ponte sul fiume Gela // Andrea Turco
- Foto: Porto rifugio di Gela, con l’ex terminale marino dell’Agip che da anni è inutilizzato // Andrea Turco
- Foto: Scorcio delle spiagge di Gela, senza l’ex stabilimento petrolchimico in sottofondo // Andrea Turco
QUESTO GASDOTTO S’HA DA FARE?
Aspettando muoio. Con questo stato d’animo la città sembra approcciarsi al tormentato progetto del gasdotto sottomarino lungo 60 chilometri che porterà il metano dai pozzi marini denominati “Argo” e “Cassiopea” a terra, nel perimetro dell’ex raffineria dove verrà trattato e compresso. Doveva essere il perno della riconversione sancita nel 2014, è stato oggetto di modifiche sostanziali e di ricorsi, ha avuto un tribolato iter che solo a dicembre si è risolto con il rilascio delle ultime autorizzazioni da parte del ministero dell’Ambiente e dei Beni Culturali. I dubbi però restano più delle certezze. Un primo dato è che l’investimento di Eni in sei anni si è dimezzato: dai 1800 milioni previsti inizialmente agli attuali 880 milioni. E se è vero che ciò è dovuto alla mancata realizzazione della piattaforma Prezioso K, è altrettanto innegabile che quelle somme mancanti non verranno destinate al territorio. Sono migliaia i lavoratori dell’indotto gelese, soprattutto metalmeccanici ed edili, che dal 2014 sono rimasti fuori dai processi produttivi. In uno stillicidio continuo di aziende costrette a chiudere e di operai che hanno fatto affidamento, quando è andata bene, agli ammortizzatori sociali. D’altra parte, come ha fatto notare il deputato regionale del Pd Giuseppe Arancio alla seduta di consiglio comunale del 16 dicembre 2019, «Argo-Cassiopea è un punto temporaneo, perché quando sarà finita la costruzione della struttura sarà finito il lavoro.»
Sono passati dieci anni dalla presentazione del primo progetto, allora denominato “offshore ibleo”, che intendeva “commercializzare il gas” in uno dei più meravigliosi tratti di mare del Canale di Sicilia. L’avvio, più volte posticipato, è stato indicato entro la fine del 2021. Ma è la stessa azienda a spiegare che «a seguito del ritardo nell’ottenimento della proroga del procedimento Via, si prefigura ed è in corso di valutazione un posticipo della data di avvio della produzione rispetto a quanto previsto inizialmente.»
E dire che nella valutazione di incidenza ambientale per Argo-Cassiopea Eni ha scelto di non interpellare l’ente preposto alla gestione della riserva naturale del Biviere di Gela. Un’omissione che ad esempio ha impedito alla Wind Mediterranea Offshore di realizzare, in un tratto di mare vicino ai pozzi Eni, un parco eolico offshore. A stabilirlo, il 26 agosto del 2019, i giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa.
«Nella valutazione di incidenza ambientale, tra l’altro, non si è tenuto conto di un fattore fondamentale come il cumulo degli impatti – afferma ancora Giudice – Non si è tenuto conto ad esempio dell’ancoraggio delle navi o del progetto sul porto commerciale di Gela o della scomparsa delle praterie di Posidonia oceanica (pianta tipica del Mediterraneo, ndr). A me pare che il paradigma di Eni nel territorio resti uguale: non sfrutterà più petrolio ma gas, e poi forse le rinnovabili (sole, vento, mare). Ma sempre per depredare le risorse, mai per migliorare la biodiversità.»
In un altro documento inoltrato al ministero, intitolato “interventi di ottimizzazione del progetto offshore ibleo”, Eni sostiene comunque che «la mancata installazione della piattaforma Prezioso K, la riduzione del numero di sealines installate e la variazione del tratto finale del tracciato consentiranno sia di ridurre i tempi delle attività di cantierizzazione, sia di ridurre i potenziali impatti ambientali legati a tale fase ed alla successiva fase di esercizio quali, tra le altre, l’interazione con le attività di pesca e con il traffico marittimo.»
Eppure i pescatori, soprattutto quelli della città di Licata che sono più interessati dai cantieri sui campi Argo e Cassiopea, continuano a essere preoccupati. Da anni figurano tra i principali promotori del comitato No Triv. Perciò Eni da tempo sta valutando con la prefettura di Agrigento delle compensazioni per la categoria. In più, beffa delle beffe, la logistica a terra si appoggerà alla cittadina di Porto Empedocle: non Gela, che da anni ha un porto inutilizzabile, e neanche la vicina Licata. Di fronte a questo quadro di incertezze i sindacati confederali chiedono da tempo, finora inascoltati, un preciso piano di programma per la realizzazione di Argo-Cassiopea.
IL FLOP DEL GREENSTREAM
Chi poteva prevedere una guerra civile lunga un decennio? Chi poteva immaginare la detronizzazione del potentissimo Gheddafi? Dal 2011 la Libia è una polveriera, dilaniata da milizie, stati islamici e governi senza legittimazione. Le conseguenze economiche per l’Eni (e per l’Italia) sono state e sono notevoli, considerando che il cane a sei zampe opera nello Stato nordafricano dal 1959 e da lì ricava i maggiori approvvigionamenti di petrolio e gas. È per questo che nel 2004 viene inaugurato in pompa magna il GreenStream: un gasdotto di 520 chilometri che attraversa il Mar Mediterraneo e che avrebbe dovuto trasportare, nelle intenzioni, 8 miliardi di metri cubi all’anno di metano dall’impianto di trattamento Mellitah alla stazione di rifornimento di Gela. Ebbene, a poco più di 15 anni di distanza dall’avvio della produzione, si può già affermare che il GreenStream è un mezzo flop. Proprio per questo motivo i pozzi marini Argo e Cassiopea dovevano rivitalizzare in parte anche il gasdotto libico. Così almeno dichiarava Eni nel 2012, alla presentazione del progetto offshore ibleo, con «una apposita sealine» che «sarà posata per il trasporto del gas estratto fino al punto di misura fiscale a terra posto all’interno della base GreenStream esistente.»
Salvo poi rimodulare le proprie intenzioni – già nel 2016 il Cane a sei zampe comunica al ministero dell’Ambiente che in seguito a una prescrizione si preferisce realizzare una nuova centrale di trattamento all’interno del perimetro dell’ex raffineria, invece della prevista cameretta fiscale nell’area GreenStream (e dire che il ministero aveva semplicemente chiesto «l’installazione di barriere fonoassorbenti in fase di cantiere»). Sollecitata ultimamente sul tema, Eni si limita a ribadire che «i due stream di gas sono separati e gestiti in maniera indipendente.»
Dal punto di vista della produzione, in ogni caso, la capacità massima del GreenStream non è praticamente mai entrata a regime. Numerose le fermate di rifornimento, con Scaroni e Descalzi costretti in questi anni a precipitarsi in Libia per preservare gli affari dagli assalti e dai blocchi. Se nel 2019 la produzione aveva ripreso a salire, attestandosi a 5 miliardi e 701 milioni di metri cubi di gas (circa l’8 per cento del fabbisogno nazionale), a gennaio e febbraio (ultimi dati disponibili) la produzione è nuovamente crollata del 14 per cento. Se la nuova crisi libica dovesse proseguire è possibile che la produzione del 2020 si attesti alla metà della capacità. Non proprio un investimento riuscito. Già nel 2010, d’altra parte, il cane a sei zampe aveva ceduto il 25 per cento del GreenStream alla compagnia di stato libica Noc, scegliendo di detenere con essa una quota paritaria del 50 cento. Costato ben 6,6 miliardi di dollari, il terminale di Gela vede impiegate appena 12 persone. Inoltre a gestire il gasdotto è la GreenStream BV, composta a metà da Eni North Africa BV, a sua volta posseduta dalla Eni International BV. Tutte le società hanno sede legale ad Amsterdam, in un Paese a fiscalità agevolata. Di un business a metà, insomma, alla popolazione locale – quella libica così come quella italiana – resta poco. Certo, il rifornimento di gas dall’estero resta essenziale per una nazione come l’Italia che ne dipende quasi del tutto. Ma era lecito aspettarsi molto di più.
«Secondo me si può dire che è già un progetto fallito», chiosa Emilio Giudice, che dirige la riserva naturale del Biviere a pochi chilometri di distanza dal GreenStream. Se si percorre la statale 115 in direzione Ragusa, superate le ciminiere dell’ex raffineria ci sono tre cartelli che si sovrappongono: GreenStream, Biviere e spiaggia nudista (davvero, ma questa è un’altra storia). «Era prevista poi una tassa proporzionale alla quota di gas. Ma se non passa gas non ci sono introiti. È come chi costruisce un’autostrada e conta di rifarsi col pedaggio, ma poi sono pochi gli automobilisti che la percorrono. Attualmente c’è una struttura che è sovradimensionata e che funziona poco e niente.»
Infine, per anni sull’Italia ha gravato una procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea per la mancata applicazione della direttiva Habitat, che ha comportato diverse lacune nel sistema di protezione della rete Natura 2000 in Italia. Tale procedura, informa la Commissione Europa, obbliga gli Stati membri «non solo a designare i siti Natura 2000 come zone speciali di conservazione (ZSC), ma anche ad adottare le opportune misure di conservazione per gli habitat e le specie protette. Tale procedura riguarda anche la Regione Siciliana.»
E anche il GreenStream, compreso nella Rete Natura 2000 di Gela. Soltanto a fine gennaio il ministero dell’Ambiente ha superato il contenzioso comunitario, attraverso la redazione delle linee guida nazionali per le valutazioni di incidenza. Tra i nuovi severi punti ci sono ad esempio «adeguate misure compensative» e la «valutazione degli effetti cumulative». Un punto, quest’ultimo, di cui non c’è traccia nell’autorizzazione al GreenStream rilasciata nel 2001 dal ministero.

Foto: Vista della città di Gela dal porto // Andrea Turco
PROMESSE NON MANTENUTE
La fine di un’era: così era stato salutato il Protocollo d’intesa del 2014 che a Gela aveva fermato il ciclo di raffinazione del petrolio. In un certo senso era tramontato il sogno di Enrico Mattei di far sfruttare le risorse del territorio alla popolazione che lo abita. Di quell’accordo finora, lo abbiamo visto, l’unico impianto a partire – cinque anni dopo la chiusura dell’ex stabilimento petrolchimico e in ritardo di due anni rispetto ai piani – è la green refinery, alimentata ad olio di palma (dall’Indonesia) e a breve dagli oli esausti (che saranno acquistati sul mercato internazionale). Oltre il gasdotto Argo Cassiopea, però, in quell’accordo firmato al ministero dello Sviluppo economico dalle parti sociali (Regione, Comune e sindacati confederali) era previsto anche altro. Innanzitutto la costruzione di un polo per il gas naturale liquefatto (GNL): il Cane a sei zampe in realtà aveva parlato di «un progetto pilota» ma in tanti, soprattutto Comune e Regione, si erano mostrati particolarmente interessati. Nel 2018 Eni aveva consegnato uno studio di fattibilità, mai reso pubblico. Oggi la bocciatura è ufficiale.
«Il progetto GNL – afferma Eni – è al momento economicamente non sostenibile, essendo a oggi pari a zero i consumi regionali di GNL (salvo due traghetti della Caronte tour che vanno a bifuel – gasolio o GNL). Se, come speriamo, gli autotrasportatori (di merci e persone) e soprattutto gli armatori sceglieranno questa energia pulita e disponibile, sicuramente la realizzazione di un hub per il GNL a Gela potrà riessere preso in esame.»
Per rilanciare l’agricoltura, invece, Eni aveva proposto la coltivazione del guayule, una coltura arbosiva dalla quale ricavare il lattice per la produzione di una gomma ipoallergenica e utile a realizzare guanti sanitari. La Regione ha messo a disposizione tre terreni, di proprietà dell’Ente Sviluppo Agricolo (Esa), per consentirne le prime coltivazioni sperimentali. Ma a distanza di tre anni, secondo il Cane a sei zampe, «al momento non sono previsti sviluppi in termini industriali.»
In parallelo, come da tempo fa notare Ignazio Giudice, segretario provinciale della Cgil Caltanissetta, il calo della produzione di idrocarburi di questi anni ha significato minori entrate per il Comune di Gela: «dal 2014 al 2018 siamo passati sulle royalties da un gettito di 17 milioni di euro a 4 milioni e 800 mila euro; nello stesso arco di tempo la produzione è passata da 20 mila a 10 mila barili». Non solo: secondo le nuove disposizioni del governo il gasdotto Argo-Cassiopea non porterà neanche un euro di royalties nelle casse del Comune. Così come già avviene da 15 anni per GreenStream. Mentre se si fosse realizzata la piattaforma Prezioso K Eni avrebbe dovuto pagare l’Imu.
PROMESSE DA MANTENERE
«Vale la pena ricordare che l’ex raffineria di Gela occupa 500 ettari di territorio, mentre la bioraffineria ne occupa una piccolissima parte, ahinoi.» È quasi nostalgico il presidente Francesco Franchi. Di fronte a sé ha 24 consiglieri comunali di Gela che gli chiedono delucidazioni sul nuovo protocollo, appena firmato tra ministero dell’Ambiente e Eni, che impegna l’azienda a dismettere gli impianti non produttivi. Di quel vastissimo territorio inutilizzato, però, a essere interessato dai lavori di smantellamento saranno soltanto pochi ettari. Il resto, come spiega lo stesso Franchi a metà dicembre agli attoniti consiglieri, «è occupato dai serbatoi, sia quelli che servono a Enimed per lo stoccaggio degli idrocarburi sia quelli che servono per la ricezione della biomassa da lavorare e del biodiesel da inviare una volta lavorato, mentre una parte servirà per ricevere il gas estratto dai pozzi marini Argo e Cassiopea. Intanto abbiamo chiuso anche le immissioni in mare delle acque che ci servivano per raffreddare gli impianti del vecchio petrolchimico. Vogliamo pure piantare mille piante. Abbiamo invitato altre industrie a installare le loro attività produttive all’interno dell’area dell’ex Raffineria: purtroppo non con risultati straordinari, perché abbiamo avuto quattro manifestazioni di interesse di cui solo due sono state accettate. Però è evidente che con questa attività di decommissioning, al di là del fatto che spenderemo 60 milioni di euro che andranno sul territorio perché si tratta di attività metalmeccaniche ed edilizie, avremo più aree da mettere a disposizione, miglioreremo lo skyline di Gela perché toglieremo la fiaccola che sicuramente non è bella, toglieremo uno dei due Snox e prima o poi penseremo anche al secondo. Abbiamo colto un’opportunità importantissima.»
Si tratta di operazioni che, per intenderci, potrebbero eliminare anche le due caratteristiche ciminiere che da decenni appartengono al profilo della città. Tutto bene dunque? Non proprio. Il piano di dismissioni nelle intenzioni durerà tre anni. Ma c’è chi fa il confronto con le bonifiche del territorio. E qui un dato su tutti lascia sconcertati: a 22 anni dall’istituzione del Sito Interesse Nazionale di Gela la percentuale di bonifiche completate, sia a terra che a mare, è dello zero per cento. Come è possibile? «I progetti di bonifica approvati dal ministero dell’Ambiente – spiega Eni – proseguono sia all’interno che all’esterno (aree Pozzi e pipelines Piana di Gela) secondo le tempistiche concordate. Per le acque è attivo dal 2007 un impianto multisocietario che, in accordo al progetto di bonifica approvato nel 2004, tratta tutte le acque di falda. Tali interventi vengono monitorati dagli enti attraverso un complesso Protocollo di Monitoraggio analitico. Per quanto riguarda i suoli, sono in corso le attività che prevedono sia la rimozione dei terreni non conformi sia il trattamento con tecniche cosiddette in situ che permettono di rimuovere la contaminazione in loco, senza scavi e movimentazioni, e i cui obiettivi vengono verificati e collaudati dagli enti.»
Può bastare? «Eni ha il compito di ristabilire un’economia che sia sostenibile per Gela, visto che lo sviluppo del territorio è drogato sin dal suo arrivo – è il parere di Emilio Giudice – E’ l’intera piana di Gela che va tutelata, non solo l’area della Raffineria. Non dobbiamo confondere l’evoluzione dell’economia energetica con i danni che ha subito il territorio, dal punto di vista ambientale, salutare, economico e sociale. Sono due cose separate. Quello che Eni vuole fare nel futuro non ci deve interessare, anche perché prevederà sempre meno persone da impiegare grazie allo sviluppo tecnologico. Oggi qui c’è un’intera natura da ricostituire. Gli strumenti per farlo ci sono, penso ad esempio al piano di gestione della rete europea Natura 2000 che è stato approvato dalla Regione Siciliana nel 2016. E allora sì che l’equazione potrebbe essere Eni + biodiversità = sostenibilità.»