Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Da una figlia a una madre. In ricordo di Eris Petty Stone

È il 7 agosto del 2019. Un incendio divampato nelle prime ore della mattinata nella baraccopoli de La Felandina – nel metapontino, in Basilicata – uccide Eris Petty Stone, una bracciante agricola vittima della tratta. Oggi, a un anno di distanza, le associazioni TerreJoniche, Comitato dei braccianti de La Felandina, Altragricoltura e Forum Terre di Dignità scelgono di tener vivo il ricordo della giovane ventottenne nigeriana con una cerimonia che sa di riscatto. Ribadendo, al contempo, l’importanza della memoria e della comunione d’intenti nella battaglia comune contro la piaga del caporalato.

Il suo vero nome è Omowunmi Bamidele Adenusi. È nata a Lagos, in Nigeria, nel 1991. Nel 2015 è partita per l’Italia portando con sé un bagaglio fatto di incertezze, timori e promesse di riscatto per sé e per i due figli che è stata costretta a lasciare, suo malgrado, nella sua terra natia. Sappiamo che a Padova ha tentato, pur senza riuscirci, di regolarizzare la propria posizione amministrativa facendo richiesta per un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Poi, sono arrivati i signori della tratta degli esseri umani. Ed Omowunmi è morta per la prima volta. Al suo posto è nata Eris Petty Stone, la bracciante agricola. Eris Petty Stone, la giovane donna costretta a prostituirsi per restare viva. Non sappiamo come né perché nel 2017 sia arrivata nell’area di Metaponto, nella Basilicata dei ghetti e dei caporali. Le vie della tratta, forse, hanno ragioni che l’umanità non conosce.
Quel che possiamo affermare con certezza è che da questo momento in poi Eris ha vissuto stabilmente negli insediamenti informali del metapontino. Per circa due anni la sua vita è stata scandita al ritmo di una lotta quotidiana per la sopravvivenza tra sfruttamento, prostituzione e paura.

IL ROGO
Nei tragici giorni che precedono l’incendio, il clima di insicurezza generalizzata a La Felandina si può toccare con mano. I braccianti agricoli, ospiti indesiderati del ghetto cresciuto nel silenzio delle istituzioni, hanno già ricevuto avviso di sgombero. Entro poco tempo, finita la raccolta, saranno costretti ad abbandonare quella che con molta fantasia e un pizzico di rassegnazione hanno imparato a riconoscere come “casa”. Anche Eris è con loro. Tra loro.
Poi, l’incendio. Eris Petty Stone muore il 7 agosto scorso, a soli 28 anni, in quello che già fin dai primi accertamenti svolti in loco dagli uomini del Commissariato di Pisticci non è mai sembrato un incidente figlio del caso. Ma, piuttosto, una scelta omicida dettata dalla necessità di imporre un silenzio di sangue.

STESSE DOMANDE, UN ANNO DOPO
«Non so se Petty sia stata uccisa», ci aveva dichiarato a caldo S., un migrante sudanese che ci ha introdotti – pur chiedendoci di restare anonimo – nel mondo segreto delle mafie che tengono sotto scacco le vite dei braccianti che popolano i ghetti lucani. «Quel che so è che loro, quelli dei culti nigeriani, sono abituati ad agire così. A La Felandina non c’erano solo i Vikings, ma anche esponenti di altri gruppi criminali. Ognuno aveva il proprio rappresentante. Perché loro sono in grado di entrare in ogni ghetto, in ogni insediamento informale, in ogni luogo cardine della raccolta.»
Oggi le domande sulla morte di Eris Petty Stone restano inevase. È davvero stata uccisa perché ha tentato di liberarsi dalle catene della tratta riscattando il proprio destino? Chi e perché ha appiccato quel rogo? E ora, un anno dopo, a che punto sono le indagini degli organi inquirenti?
«Sappiamo ancora poco sui risultati delle indagini», commenta Katya Madio, presidente di TerreJoniche. «Ma abbiamo deciso di non restare in silenzio. La vita di Eris contava. Ed oggi siamo qui, al cimitero di Bernalda, per celebrare la vita, e non la morte, di una giovane donna. Di una madre. Purtroppo non stupisce che oggi la lotta delle donne per il diritto a essere considerate persone sia ancora una necessità. Nel foggiano», sottolinea «stando all’ultimo rapporto della Flai Cgil sulle agromafie, le donne braccianti guadagnano tra 1 euro e 1.50 euro all’ora. Circa il 20 per cento in meno rispetto agli uomini. Tra le rom bulgare è il caporale al mattino a scegliere quali ragazze impegnare nella raccolta nei campi e quali destinare alla prostituzione. Il numero delle interruzioni di gravidanza, sempre nel foggiano, è smisuratamente alto. Così come è terrificante il numero di “orfani bianchi”, di bimbi cioè costretti a vivere lontano dalle loro madri perché queste non hanno tempo e possibilità per accudirli. È per questo che abbiamo deciso di dar vita al collettivo “Tutte giù per terra” sull’onda del pensiero delle donne de La Via Campesina, fermamente decise a rompere il silenzio, le righe, gli schemi. Costruire un femminismo contadino e popolare, secondo la dichiarazione politica delle donne de La Via Campesina sarà la base culturale della nostra battaglia affinché siano principalmente le donne a opporsi allo sfruttamento e all’emarginazione.»

CELEBRARE PER RAVVIVARE IL FUOCO DELLA MEMORIA
«La realtà è che la vita delle donne braccianti è molto più dura di quella degli uomini», ribadisce Lucia Pompigna, lavoratrice impegnata nel progetto “Donne braccianti contro il caporalato” sostenuto da NoCap, Rete per la Terra e IAMME. «Non possiamo più tollerare che i braccianti vivano nel disagio e nel degrado. E siamo stanchi di dover fare la conta delle vittime dei roghi nei ghetti o del caporalato. Per me la vita di Eris Petty Stone vale quanto quella di Paola Clemente, un’altra bracciante morta nei campi. Ed entrambe avrebbero dovuto essere tutelate meglio e di più.
Mi auguro che cerimonie come questa servano per tenere acceso un faro che faccia luce su responsabilità e omissioni. Ogni vita è sacra e non può essere immolata sull’altare del profitto. Tutte e tutti abbiamo diritto a rispetto e dignità.
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«Petty non ha mai trovato uno spazio umano che potesse accoglierla», interviene Mody Souliman, referente del Comitato dei braccianti de La Felandina. «Qui Petty ha trovato solo la stanchezza, lo sfruttamento e la schiavitù. La sofferenza di migliaia di Petty che vivono in questo Paese esiste oggi ed esisterà purtroppo anche domani. Viviamo tutti su di un’unica Terra, eppure il nostro è un mondo diverso, che non esiste per molti di voi. Lo sgombero de La Felandina,» continua, «per le istituzioni è stato il modo per eliminare un problema che per noi però esiste ancora. Perché ieri come oggi restiamo invisibili. Finora non c’è stata una chiara collaborazione con le istituzioni locali per quel che riguarda le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti africani che, ad oggi, continuano a rifugiarsi come topi nelle case abbandonate e malridotte. Abbiamo bisogno di integrazione, servizi e diritti uguali per tutti. E la nostra battaglia andrà avanti perché non ci siano più altre Petty. Perché non ci siano più altri funerali in cui piangere morti inspiegabili.»

DA UNA FIGLIA A SUA MADRE
Nel cimitero di Bernalda, qui dove riposa il corpo di Eris Petty Stone, i referenti delle associazioni promotrici dell’iniziativa di commemorazione lasciano dei fiori bianchi sulla sua tomba. Mentre dall’altro capo del mondo, a Lagos, in Nigeria, una figlia affida ai social il ricordo della propria madre.
«Ho sempre desiderato e aspettato che tu tornassi», scrive la giovane. «Ho sempre desiderato rivedere il tuo bel viso. Non avrei mai pensato che non lo avrei più rivisto. Mi manchi, mamma. Desideravo rivederti ancora. Però spero che adesso tu possa riposare in pace.»
Parole dolci, piene di rimpianto e di tristezza per quell’ultima carezza che non c’è stata. Per una vita, quella di Omowunmi Bamidele Adenusi, che pure abbiamo tragicamente imparato a conoscere come Eris Petty Stone, che non può perdersi nell’elenco infinito delle vittime della tratta degli esseri umani.

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Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.