Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Decreto Salva Ilva: il governo si difende ma i cittadini non mollano

Alcuni cittadini residenti tra Taranto e provincia stanno conducendo una dura battaglia legale nel tentativo che venga riconosciuto, almeno da un ente europeo, il mancato rispetto dei principi base dettati dalla Carta europea dei diritti umani a tutela del diritto alla vita. I ricorrenti, in relazione ai contenuti dei decreti Salva Ilva – con atto numero 54414/13 – contestano al governo italiano la violazione degli articoli 2, 8 e 13 della Convenzione europea dei diritti umani.

Un ricorso divenuto una vera e propria spinta propulsiva per altri cittadini. Infatti, di ricorsi, se ne sono aggiunti altri due, uno nel 2015 e l’altro nel 2016. L’Italia avrebbe violato le disposizioni della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) di cui agli articoli 2 (nella parte in cui dispone che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita […]’’), 8 (nella parte in cui dispone che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio”) e 13 (nella parte in cui dispone che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale”).

IL GOVERNO SI DIFENDE E CHIEDE L’INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO
Per meglio comprendere l’infondatezza delle argomentazioni avversarie va ricordato che i ricorrenti hanno chiesto alla Corte di valutare la violazione degli articoli citati non in relazione alle violazioni poste in essere da aziende (si pensi a Ilva e Riva Fire), né tantomeno da singoli soggetti privati e/o esponenti di enti pubblici che, come previsto dal nostro ordinamento, rispondono penalmente del proprio operato solo a titolo personale.
La violazione dei suddetti articoli va intesa in relazione al comportamento dello Stato convenuto in danno dei ricorrenti per non aver adottato le dovute misure a tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini, sulla base di fatti noti da tempo alle competenti autorità (le emissioni inquinanti, la contaminazione del territorio e i danni alla salute dei cittadini), anche alla luce di richieste ufficiali giunte dalla magistratura inquirente. In altri termini, l’atto stesso di emanazione di leggi in contrasto con le necessità di tutelare la salute pubblica è l’oggetto di contestazione da parte dei cittadini ricorrenti. Contro tali leggi, il cittadino italiano non ha alcun titolo per poter fare ricorso giudiziale, né tantomeno ricorrere ad altri rimedi interni.

QUELL’EFFICACE DETERRENTE CONTRO LE MINACCE PER IL DIRITTO ALLA VITA
La violazione dell’obbligo di tutela del diritto della vita da parte dello Stato italiano, attiene proprio al non aver predisposto – nonostante la conoscenza dei rischi provenienti dall’Ilva di Taranto – e messo in atto un quadro legislativo e amministrativo diretto a costituire proprio quell’“efficace deterrente contro le minacce per il diritto alla vita” che i ricorrenti lamentano. Lo stesso comportamento omissivo da parte dello Stato italiano è ciò che viene inoltre contestato dai ricorrenti con riferimento all’articolo 2 della Cedu. Per tali motivi i rimedi interni elencati dal governo nelle proprie osservazioni sono assolutamente non idonei ad essere valutati come “rimedi interni”. Tale situazione rende evidente altresì la violazione dell’art. 13 Cedu.

IN RELAZIONE AI RICORSI GIURISDIZIONALI PENALI
Sostiene il governo italiano che l’individuo che abbia sofferto la lesione di diritto tutelato dalla legge penale, può assumere la posizione di vittima nell’ambito del procedimento penale volto ad accertare tale presunta lesione e l’eventuale responsabilità degli individui o degli enti in relazione all’evento. Ciò è vero ma nulla c’entra con i rimedi che i ricorrenti avrebbero potuto esperire. Ed infatti, ai sensi dell’articolo 27, comma 1, Costituzione Italiana “la responsabilità penale è personale” motivo per cui l’azione penale non può essere di alcuna utilità ai cittadini che lamentino l’adozione di provvedimenti legislativi contraria ai principi della Cedu, o che lamentano comportamenti omissivi da parte dello Stato a tutela dei propri diritti.

IN RELAZIONE ALL’ATTUALE LEGISLAZIONE SUI CRIMINI AMBIENTALI
Il governo italiano sostiene che la recente riforma delle norme penali in materia ambientale, ai sensi della legge numero 68/2015, si tradurrebbe in una garanzia offerta dallo Stato per una maggiore protezione degli interessi e dei diritti coinvolti nei casi di attività che abbiano un impatto inquinante sull’ambiente e la salute pubblica. Per tale motivo, secondo il governo, le disposizioni di questa legge sarebbero pienamente adeguate per garantire una protezione efficace dei diritti pretesi dai ricorrenti. L’oggetto della legge è però irrilevante ai fini della tutela richiesta col presente ricorso.
Ed infatti tale legge ha introdotto nel Codice Penale italiano il Titolo VI-bis rubricato “dei delitti contro l’ambiente” e punisce chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna (art. 452 bis Cod. Pen.); ovvero chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale, vale a dire, l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, oppure arrechi offesa alla pubblica incolumità (art. 452 quater Codice Penale).
La medesima legge dispone inoltre sanzioni accessorie quali la confisca ed il ripristino dello stato dei luoghi. La portata sanzionatrice di questa legge è dunque rivolta esclusivamente nei confronti di soggetti privati titolari di attività idonee a produrre inquinamento ambientale: anche questo riferimento normativo, pertanto, non è qualificabile come “rimedio interno” ai sensi della Cedu visto l’oggetto del ricorso e le motivazioni espresse in precedenza.

IN RELAZIONE AI RIMEDI INTERNI DAVANTI ALLA GIURISDIZIONE CIVILE
Il governo italiano persistendo nell’elencazione di fattispecie normative del tutto irrilevanti ai fini del presente ricorso, individua ulteriori possibili rimedi interni che i ricorrenti avrebbero potuto utilizzare per veder soddisfatte le proprie pretese in taluni articoli del Codice Civile italiano, ed in particolare negli articoli 844, 2043, 2050.
In realtà l’articolo 844 – che disciplina il caso delle “immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino” – è norma attinente alla tutela della proprietà fondiaria più che ai diritti fatti valere dai ricorrenti in questa sede secondo la peculiarità di tale azione.
Analogamente irrilevanti sono i riferimenti agli articoli 2043 e 2050 del Codice Civile atteso che, rispettivamente, il risarcimento del danno a carico di chi compia un fatto illecito e la responsabilità in capo a chi cagioni un danno nello svolgimento di un’attività pericolosa, mal si addicono a chi, come i ricorrenti, non chiede tutela per la propria incolumità o per la salvaguardia dei propri beni avverso una determinata attività illecita posta in essere da un determinato soggetto privato, bensì fa istanza alla Corte di valutare il susseguirsi di atti normativi emanati dai preposti organi statali in violazione della tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini e di non aver, d’altro lato, emanato misure idonee a tutelare i diritti la cui violazione i ricorrenti lamentano nonostante la ben nota criticità riguardante i luoghi e gli abitanti della zona di Taranto.
Allo stesso modo non può certamente costituire rimedio interno idoneo alla tutela dell’oggetto del presente ricorso il riferimento all’articolo 700 del Codice di procedura civile italiano per il quale “chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito.
Tale norma si qualifica come una mera misura cautelare con funzione anticipatoria degli effetti della decisione di merito, quindi propedeutica ad un’azione civile da instaurarsi successivamente: tuttavia, nel caso dei ricorrenti, alcuna azione civile avrebbe mai potuto essere intentata avverso l’adozione di decreti legislativi adottati dagli organi statuari, pertanto il riferimento ad una norma con funzione cautelare anticipatoria è del tutto inutile e fuorviante.
La controparte ha inteso evidenziare che i ricorrenti hanno atteso molto tempo prima di agire per la tutela dei propri diritti e che lo avrebbero fatto direttamente dinanzi alla Echr, in violazione della regola del preliminare obbligatorio esperimento dei rimedi interni ed oltre il termine dei sei mesi dalla data della decisione interna definitiva (come previsto dall’articolo 35, comma 1 Cedu).
Al contrario, i ricorrenti hanno più volte precisato di non aver avuto a disposizione nessuna via di ricorso utile ed effettiva ai sensi degli articoli 35 e 13 della Convenzione. In particolare va rilevato che, benché la questione ambientale perduri nella città di Taranto (e dintorni) dai primi anni Novanta, non è mai stata emessa nessuna decisione giudiziaria che riconosca la responsabilità civile o penale delle autorità pubbliche.

LA PRESUNTA INATTIVITÀ DEI CITTADINI DI TARANTO È SMENTITA DA ULTERIORI CIRCOSTANZE
Il 20 maggio 2013 un gruppo di cittadini tarantini incontrarono a Roma, il ministro all’Ambiente, Andrea Orlando, in carica dall’aprile del 2013 al febbraio del 2014.
In quella occasione i cittadini esposero le proprie istanze facendo presente l’emergenza sanitaria e la necessità di fermare immediatamente le fonti di inquinamento.
Dopo quell’incontro, e successivamente alla verifica di quanto esposto, attraverso un confronto con Ispra e Arpa Puglia, il ministro Orlando – in data 3 giugno 2013 – confermò le gravi inadempienze dell’azienda, con un comunicato stampa ufficiale. Anziché revocare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), come previsto dalla stessa normativa vigente, nominò un commissario straordinario. Il prescelto fu Enrico Bondi, già amministratore delegato dell’Ilva di Taranto. Un incarico con durata di 12 mesi, prorogabili fino ad un massimo di 36, superando di fatto i termini di proroga previsti dalle normative europee. Veniva così privilegiata la continuità produttiva nel rispetto dell’Aia, in totale contrasto con la necessità di intervenire immediatamente per tutelare la salute pubblica. Tale provvedimento non ha fatto altro che prolungare i tempi di attuazione dell’Autorizzazione integrata ambientale, già ampiamente dilatati, rimandando di fatto interventi immediati e necessari, data l’emergenza sanitaria in atto. Interventi che, alla luce dei successivi decreti legislativi Salva-Ilva, risultano in seguito essere stati procrastinati ulteriormente a data da destinarsi.
I ricorrenti hanno dato anche atto che il 5 aprile 2013 un gruppo di cittadini – tra cui la scrivente (Daniela Spera, ndr), ricorrente e rappresentante) – ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Taranto, teso a richiedere agli organi inquirenti l’accertamento del rispetto e applicazione della normativa di cui al decreto legislativo n.152/06 in materia di Autorizzazione integrata ambientale con riferimento allo stabilimento Ilva spa di Taranto.
In seguito, il 20 maggio 2013, la scrivente, facendosi portavoce dei propri concittadini e delle loro preoccupanti condizioni di salute, si recava a Roma presso il ministero dell’Ambiente al fine di invitare le autorità italiane ad applicare la normativa in vigore sull’Aia (decreto legislativo n.128/2010 che ha recepito la direttiva europea 2008/1/CE Integrated Pollution Prevention Control-IPPC). In particolare chiedeva la revoca dell’Autorizzazione integrata ambientale visti i gravi pregiudizi sanitari cui erano e sono sottoposti i cittadini di Taranto. Ed infatti la revoca dell’Aia, prevista in caso di continue inadempienze di un’azienda, avrebbe comportato l’arresto degli impianti responsabili del rischio sanitario.
In quella occasione la scrivente sottolineava la sussistenza delle condizioni per la revoca dell’Aia in applicazione dell’articolo 29-decies, punto 9, del Testo Unico Ambientale (nella parte che riguarda la normativa AIA) a causa delle reiterate violazioni delle prescrizioni Aia da parte dell’azienda Ilva. Il ministro della Salute, trovando interessanti e fondate queste osservazioni, dichiarava che si sarebbe occupato di quell’aspetto dopo aver contattato gli enti di controllo che lo avrebbero istruito sulla gravità delle infrazioni.

I RISULTATI OTTENUTI DAL MINISTERO SONO STATI DEL TUTTO INSODDISFACENTI
Il governo anziché far proprie le istanze dei cittadini proponeva il commissariamento dell’azienda (derogando all’articolo di legge che, invece, prevedeva la revoca per reiterate violazioni) ed emanava il decreto n.61 del 4 giugno 2013 (detto Salva-Ilva bis, al quale, come visto sono seguiti altri otto provvedimenti legislativi “Salva-Ilva”) che, tra le altre cose, stabiliva (al comma 1-ter dell’articolo 1) che, nel caso di reiterate violazioni e inadempienze alle prescrizioni autorizzatorie, si debba procedere al commissariamento dell’azienda così, di fatto, ponendo nel nulla la sanzione della revoca dell’Aia che avrebbe portato alla chiusura degli impianti.
A tutt’oggi sono in corso i ben noti procedimenti penali a carico – a vario titolo – di esponenti della classe politica, amministrativa ed imprenditoriale. In questo contesto va evidenziato il comportamento tenuto dal governo italiano: rilascio dell’Aia nel 2012, approvazione del decreto-legge n.207 del 3 dicembre 2012, poi convertito con legge n.231 del 24 dicembre 2012 (cosiddetto “Salva-Ilva”), opposizione alle impugnazioni presentate dalla Procura di Taranto innanzi alla Corte Costituzionale ed i successivi decreti legislativi anch’essi denominati “Salva-Ilva” giunti al numero complessivo di dieci dei quali l’ultimo in ordine cronologico, varato dal Consiglio dei ministri il 31 maggio 2016 prevede addirittura che la società che vincerà la gara per l’acquisizione del gruppo siderurgico italiano potrà rinviare il piano per il risanamento ambientale al 31 dicembre del 2019.
Il governo italiano, nell’ottica di un tentativo di contemperamento tra il diritto alla salute e all’ambiente salubre con il diritto al lavoro, ha dimostrato di non valutare correttamente nel caso di specie la gravità dell’emergenza sanitaria in atto nell’area di Taranto che impone misure urgenti e risolutive a tutela della salute dei cittadini. In effetti si è dimostrato che anche l’Aia rilasciata all’Ilva non è rispettata dall’azienda.
È l’atto stesso di emanazione di tutte queste leggi in contrasto con le necessità di tutelare la salute pubblica – e il non aver legiferato a tutela di essa – ad essere l’oggetto di contestazione da parte dei cittadini ricorrenti. Il documento presentato dal governo è fitto di riferimenti normativi e di allegati a supporto della tesi enunciata. Gli avvocati dei ricorrenti hanno smontato nel dettaglio ogni punto. Il termine ultimo per rispondere alle osservazioni governative è fissato al 14 aprile prossimo.
I cittadini non mollano, ma la battaglia è ardua.

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Autore:

Responsabile del Comitato Legamjonici di Taranto. Nel 2010 consulente di parte nell’inchiesta “Ambiente svenduto” sull’Ilva.