Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

Per una storia sociale del terremoto

«Uno degli aspetti più affascinanti della storia orale è che ci si trova spesso di fronte ad interpretazioni degli eventi e della storia dissonanti rispetto alle versioni ufficiali o ai luoghi comuni.»

Nel libro La memoria culturale – divenuto un vero e proprio “classico” nell’ambito dei memory studies – Jan Assmann ha parlato di memoria comunicativa riferendosi al “passato prossimo”, ossia i ricordi che le persone viventi condividono con i propri contemporanei. Si tratta della memoria legata all’esperienza diretta, che nasce, cresce e passa insieme ai suoi detentori e che, per questa ragione, abbraccia un arco temporale che non può spingersi oltre gli 80-100 anni, circa tre o quattro generazioni. Assmann evidenzia inoltre come la metà di questo tempo, quarant’anni, rappresenta una soglia critica poiché i testimoni coevi che hanno vissuto un evento significativo iniziano a ritirarsi dalla vita attiva, orientata verso il futuro, ed entrano nel momento in cui cresce il ricordo e con esso il desiderio di fissare e tramandare [1]. Se non si vuole che questa memoria biografica vada perduta è necessario che la trasmissione avvenga in altre forme.
Faccio questa breve premessa per precisare che la memoria di cui vorrei parlare in queste righe è proprio quella relativa al ricordo vivo, più precisamente a delle testimonianze che ho raccolto durante una lunga ricerca sul sisma del 1980. Una memoria che può rivelare alcune divergenze rispetto a quella mediatica, la quale ha spesso enfatizzato aspetti negativi come la corruzione e il clientelismo, o a quella trasmessa dalle autorità in occasione delle commemorazioni. Uno degli aspetti più affascinanti della storia orale è che ci si trova spesso di fronte ad interpretazioni degli eventi e della storia dissonanti rispetto alle versioni ufficiali o ai luoghi comuni e dunque, adottando un atteggiamento umile e teso all’ascolto, possiamo avvicinarci al particolare, ai modi in cui le persone collocano se stesse nella storia e allo stesso tempo provare stupore, come un viaggiatore per la prima volta in un paese straniero [2]. Nei lunghi dialoghi con quanti hanno accettato di raccontare la propria esperienza ho spesso provato questa sensazione, unita al privilegio di vedermi affidate storie minute e private, un “dono” che in qualche caso veniva concesso per la prima volta.
Non tutti hanno voluto ripercorrere la sera del 23 novembre 1980 ma quando ciò è avvenuto è stato il momento più intenso delle interviste. Accanto alle descrizioni drammatiche della “natura che si anima” ho spesso ascoltato racconti inaspettati. Felice, dopo esser scampato ai crolli e appena giunto all’ingresso del borgo di Conza della Campania, ricorda come i primi aiuti per cercare di scavare fra le macerie arrivarono «non dagli uomini, ma dalle donne», donne il cui fondamentale contributo nelle emergenze passa spesso in secondo piano. Qui, di fronte a quella che la stampa definì un’«apocalisse», i primi tentativi di soccorso provennero dagli abitanti stessi come Domenico, minatore appena rientrato dal Belgio, che grazie alle sue abilità riuscì a mettere in salvo la sua famiglia e tutte le persone incontrate sul suo cammino. Storie a lieto fine ma anche istantanee in cui emerge l’impotenza davanti alla vastità della distruzione. A Sant’Angelo dei Lombardi Michele, dopo i primi momenti di smarrimento di fronte al crollo di palazzo Japicca, ricorda che:

si sentiva tanta gente chiamare aiuto però… oltre al fatto che era tutto buio non si riusciva nemmeno a localizzare bene queste voci […] perché c’era buio perché ci stavano tante macerie […] c’era l’abitazione di mio fratello che stava sempre a Sant’Angelo… quindi mi so’ recato anche là… ma siccome era un palazzo, talmente tante macerie… non si riusciva nemmeno a scavare… […] era talmente tanto alto lo cumulo re macerie… ma come se faceva a scavà… una fatica inutile…

Foto: Fototec@ Bagnacavallo, Fondo Claudio Salvini // Dal reportage Terremoto dell’Irpinia 1980 di Claudio Salvini – FCS 003 304-627

Le oggettive difficoltà iniziali amplificate dai ritardi dei soccorsi e nella comprensione della tragedia sono storia nota, fonte di polemiche ma anche inizio del lungo percorso che porterà alla nascita della Protezione civile così come oggi la conosciamo. Meno note sono forse le storie particolari che presero vita nei paesi grazie all’incontro con persone provenienti da tutta Italia e dal mondo. Della «memoria eroica» dei volontari ne ha parlato Stefano Ventura, ma gli abitanti restituiscono percezioni diverse sui primi mesi dove ogni paese si gemellava con altri luoghi d’Italia e del mondo. Le parole di Franco mostrano come dal forte dramma individuale possa originare grande dignità e altruismo:

Io mi tuffai nel lavoro […] in effetti mi sentivo quello che aveva perso molto col terremoto e non volevo niente… era semplicemente la rabbia del terremoto, la sfogavo col lavoro nell’aiutare così… è stata una reazione mia… non volevo che altri venissero a risolvere i nostri problemi nel senso che dico “Se noi siamo i terremotati noi ci dobbiamo aiutare”

Mentre parla Luigi ancora mostra meraviglia per la «cucina telescopica» dei volontari della provincia di Pesaro-Urbino e Tonino, ricordando il primo anno dopo il sisma:

Se uno parte dall’idea… della grave perdita di amici […] devastante, angosce… è tutto nero… l’anno del lutto […] però sul piano poi delle relazioni… tra le persone, tra gente forestiera… tra i vicini, oserei dire quasi un anno esaltante… sul piano dell’impegno, della condivisione, della speranza, sembrava di esser diventati tutti uguali […] nel senso che sembrava che anelassimo a un solo modo di pensare

Con un sorriso disincantato gli fa eco Rosaria:

Era una collaborazione meravigliosa, spettacolare perché non c’erano neanche più vincoli tra il Nord e il Sud, il bresciano che ti dava una mano, tu che chiedevi aiuto al bresciano o al fiorentino, quindi in quel momento io vedevo un mondo diverso

I primi mesi del 1981 furono cruciali da tantissimi punti di vista: vite private e familiari stravolte, difficoltà ad adattarsi ma anche nuove reti di relazioni, progetti, partenze e ritorni. E scelte, su dove e come riorganizzare la propria vita ma soprattutto sul destino da assegnare a quei «paesi presepe», per usare la celebre espressione di Francesco Compagna. Sant’Angelo dei Lombardi e Conza della Campania esemplificano uno dei più frequenti dilemmi che si sono presentati nella storia degli uomini ogniqualvolta si è dovuto procedere a ricostruzioni su vasta scala: ripristinare il passato o avviare un nuovo corso? Com’era dov’era o ex novo?

Io ero per ricostruire il paese dov’era… possibilmente il centro storico com’era insomma… quindi con tutte diciamo la sua storia e la sua cultura… appunto storia del paese […] una decisione molto condivisa dalle persone […] quello che in effetti interessava alla maggior parte della gente è quello di avere la vicinanza, quindi restare nei luoghi della tragedia… del ricordo

È questo il ricordo di Michele a proposito di Sant’Angelo dei Lombardi dove oggi è possibile ammirare il recupero dell’antico nucleo storico. Motivazioni diverse sono alla base di questa scelta, così come a Conza dove ragioni archeologiche e geologiche sconsigliarono una ricostruzione in situ per cui oggi l’antico insediamento è divenuto un parco archeologico.

Non era più pensabile che Conza che era la terza volta che veniva giù con un terremoto potesse continuare a sfidare le forze della natura là sopra… ecco perché… sto pensiero si fece strada nella mente della gente… tutti a valle…

Dibattiti, progetti, esperti, piani di ricostruzione e cantieri ma, dopo le grandi decisioni, il cammino verso la rinascita si presentava lungo e impervio. Dove avrebbero atteso questo tempo le popolazioni?
I prefabbricati sono presto diventati il simbolo del prolungamento dell’emergenza e dei ritardi della ricostruzione. Come accade ancora oggi in più parti d’Italia, in occasione degli anniversari i media si recano nei luoghi del disastro per fotografare lo stato di avanzamento dei lavori rinforzando l’idea che con “ricostruzione” ci si riferisca esclusivamente ad un insieme di “oggetti” come tetti, strade e pali della luce. Non si tratta in realtà solo di questo, al centro dell’attenzione dovrebbero esserci le persone, con i loro retroterra culturali, affetti, bisogni e aspettative. Dietro quei villaggi, quelle casettine tutte uguali, quelle mura sottili installate dal Commissariato di Giuseppe Zamberletti sono molteplici le esperienze attraversate, ognuna con la propria specificità. A meno di un anno dal sisma Conza della Campania, grazie al gemellaggio con la provincia di Bologna, già aveva inaugurato la sua cittadella a valle e di quel periodo prevale un ricordo positivo:

Si stava bene nei prefabbricati… ecco questa è stata una bella esperienza… perché abbiamo vissuto più vicino alle persone tutti… eravamo tutti uguali e esser tutti uguali è importante… non c’era il ricco non c’era il povero […] pure le figlie mie dicono «mamma…quant’era bello quando stavamo nei prefabbricati…» […] è stato un bel momento… per me la vedo così… che mo’ pure se non ti vedi spesso con una persona ma ti sei conosciuto nei prefabbricati quando ti vedi è come si fosse uno di famiglia

Il ricordo di Gerardina è molto diffuso fra i conzani poiché quella “comunità provvisoria” ebbe la possibilità di restare unita conducendo una vita in continuità con quella del vecchio centro. Ho ritrovato opinioni simili anche sulla vita nei prefabbricati a Sant’Angelo ma anche lo smarrimento di chi, ritrovandosi a vivere in uno dei tanti villaggi sorti intorno al centro, avvertiva la mancanza della piazza come luogo d’incontro per tutta la comunità.
Poi, con il passare degli anni, ogni paese ha gradualmente rimosso le tracce della distruzione e della transizione verso la ricostruzione definitiva. Tempi diversi per ognuno, e per ogni casa una storia, una famiglia, un vissuto. A seconda della propria esperienza e della generazione di appartenenza si formano giudizi e interpretazioni diverse. C’è chi crede che dopo tante difficoltà si sia realizzata una buona ricostruzione e chi non si abitua ai nuovi spazi del proprio paese, chi è convinto della bontà delle scelte di allora e chi rimpiange lo spirito di una comunità andata perduta. E ancora, c’è chi, nato dopo il 1980, coltiva curiosità per quel passato che non c’è più ma anche il desiderio di costruire il proprio futuro a partire dal momento in cui è nato, senza il fardello di un tempo conosciuto solo attraverso foto e racconti.

Foto: Fototec@ Bagnacavallo, Fondo Claudio Salvini // Dal reportage Terremoto dell’Irpinia 1980 di Claudio Salvini – FCS 003 301-091

A quarant’anni dall’evento spartiacque sono sempre meno i resti materiali di quella stagione e visitando i paesi del cratere non sempre è possibile dire con facilità “Qui c’è stato un terremoto”. Inoltre, il destino dell’area più colpita oggi si intreccia con quello più generale delle aree interne italiane, senza dimenticare lo stato di eccezionalità prodotto dalla pandemia in corso.
Eppure un terremoto c’è stato e un luogo che meriterebbe di essere visitato, dove ancora l’evento risuona, è quello della memoria. Non mi riferisco ovviamente alle testimonianze emozionali raccolte occasionalmente ma ad un ascolto più attento di quelle esperienze, che ci permetta di comprendere come gli eventi e le trasformazioni sociali vengono interpretati da chi li vive sulla propria pelle, di andare oltre la storia dei maggiori protagonisti e avvenimenti, di svelare aspetti che ad uno sguardo distratto non sarebbero visibili. Certo, le testimonianze non vanno semplicemente collezionate ma anche imbastite insieme ad un tessuto storico che le contenga e dia loro un senso. Solo in questo modo le narrazioni dell’Irpiniagate, della corruzione e del malaffare che negli anni sono prevalse possono trovare la giusta collocazione in un quadro storico e sociale più complesso.
Sono convinto che una piena comprensione di questa vastissima area del Mezzogiorno, oggi impensabile senza il turning point del 1980, vada ricercata proprio a partire dalle storie di chi ha vissuto quell’esperienza. È la memoria il luogo in cui possiamo ritrovare una sintesi tra passato, presente e futuro, riallacciare i fili del tempo spezzati e ripristinare il legame vivente fra le generazioni.
«L’ho presente… è tutto nella mia mente, ogni spigolo, ogni angolo […] e lo ricordo, sono l’ultima generazione che può darsi ricorda il paese vecchio». Così Erberto iniziò a raccontarmi della vecchia Conza, in uno dei tanti dialoghi di cui ricordo ancora lo stupore provato. Fra gli spigoli e gli angoli della memoria il “passato prossimo” è ancora vivo e attende di esser ascoltato.


In questo articolo compaiono riflessioni dell’autore tratte dal libro Memorie dal cratere. Storia sociale del terremoto in Irpinia in uscita, il prossimo autunno, per la casa editrice EditPress. È possibile pre-acquistare una o più copie scontate del libro su Produzioni dal Basso.


[1] Assmann J., La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997.
[2] Gribaudi G., La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi nel Novecento, Viella, Roma 2020.

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