Nel 1968 l’Eni commissiona ai sociologi Eyvind Hytten e Marco Marchioni uno studio con l’obiettivo di evidenziare lo sviluppo di Gela e della Sicilia per mano dell’allora Ente nazionale idrocarburi. Il risultato fu “Gela, una storia meridionale”, un libro-manifesto, che il committente censurò perché raccontava il mancato sviluppo e il sottosviluppo e non lo sviluppo patinato. Per queste ragioni Hytten e Marchioni meriterebbero l’intitolazione di una strada, come punto di partenza di un percorso verso la Storia.
La grande Storia è zeppa di piccole storie che rimangono ai margini. Storie che rimangono patrimonio di pochi, e che invece dovrebbero diventare parte integrante di una comunità. Per cominciare a scrivere un’altra narrazione, un’altra Storia, altre storie. È il caso di Gela e di un piccolo libro, un testo scritto da Eyvind Hytten e Marco Marchioni esattamente cinquanta anni fa. Un anniversario passato terribilmente sotto silenzio, nonostante la recente morte di
uno dei due autori (Marco Marchioni, ndr). Già dal titolo “Gela, una storia meridionale” (Milano, Franco Angeli, 1970), il volume traccia la rotta di una vicenda che allo stesso tempo è locale, e dunque unica, e sintomatica di un sogno chiamato progresso dal quale era opportuno svegliarsi già allora, nel 1970. Il sottotitolo è ancora più esplicativo, si trattava di una “industrializzazione senza sviluppo”: la creazione di uno stabilimento petrolchimico da parte dell’Eni aveva già esaurito, a poco più di dieci anni di distanza dalla scoperta dei primi giacimenti di petrolio, la spinta propulsiva
auspicata dallo stesso Enrico Mattei.
La storia è nota: nel 1968 il Cane a sei zampe assolda i due sociologi per far loro apprendere sul campo quel che di buono l’azienda di Stato ha portato nel sud della Sicilia. Un’operazione non certo inedita – su Gela Eni aveva già mobilitato intellettuali del calibro di Leonardo Sciascia e Vittorio De Seta – ma che in parte sorprende, certamente oggi più di allora.
Hytten, studioso norvegese, arrivava da Partinico dopo aver viaggiato in vespa per mezza Europa, e nell’entroterra palermitano aveva lavorato a stretto contatto con Danilo Dolci, il collega triestino che qui lottava per il riscatto della povera gente. Marchioni, sociologo romano, aveva addirittura militato in Spagna tra gli antifranchisti, un’appartenenza talmente netta che, dopo la recente scomparsa a fine marzo, i suoi cari hanno ricordato che «fino alla fine diceva di essere comunista nel senso di sentirsi parte di qualcosa, di un’utopia». I due, insomma, avevano le idee chiare. Si trasferiscono con le rispettive famiglie, per due anni, nella cittadina che è diventata una speranza collettiva, caso emblematico di propaganda politica e statale.
«Arrivai a Gela di notte – ha ricordato lo stesso Marchioni in un documentario Rai del 2017 – Quando uno arriva dal Nord e va verso Gela vede una grande macchia oscura, poi una grande città illuminata con riflettori e luci come se fosse New York, e invece è lo stabilimento. Un impatto terribile».
Alla fine di quella esperienza i due sociologi elaborano il libro che, non rispecchiando le aspettative del gruppo Eni, viene subito ritirato dalle librerie (come ha raccontato ancora Marchioni in un’intervista su Repubblica in occasione del trentennale).
Riletto oggi, il testo resta impressionante per lucidità. Non tanto per presunte doti profetiche – i due sociologi non affrontano ad esempio la questione ambientale, anche perché a quei tempi mancava la sensibilità, prima ancora che gli strumenti d’analisi – quanto perché venivano individuate in maniera talmente acuta problemi e criticità che già si intravedevano in nuce possibili correzioni in corsa. Invece una cieca e inconcludente politica non seppe mai intercettare quei bisogni così efficacemente descritti. Ne è prova, ad esempio, il caso della realizzazione del quartiere Macchitella: prevista come zona dormitorio per i dipendenti Eni, solo negli anni Ottanta Macchitella è stata annessa al Comune.
«Nella mente dei creatori – si legge nel libro – il villaggio doveva essere autosufficiente, costituire un nucleo separato e differenziato dalla città di Gela, offrire tutta una serie di servizi moderni e funzionali ai propri abitanti, in modo d’evitare la necessità di recarsi al centro abitato per i bisogni quotidiani di vario tipo (si può notare, però, che manca nel villaggio qualsiasi struttura effettiva per il tempo libero). La costruzione del villaggio fu, e lo è tuttora, motivo di polemica. Il problema fondamentale che esso solleva è legato alla scelta del luogo dove è stato costruito. Collocato all’estrema periferia del Comune (in pratica al di fuori della città), esso rimane qualcosa di estraneo alla vita locale; rappresenta un’isola, un’oasi o un ghetto, a seconda delle interpretazioni che si vogliano dare. È un’isola in quanto è estraneo alla cultura e alla vita della comunità nella quale avrebbe dovuto inserirsi e sulla quale avrebbe dovuto agire; il sistema stradale, per esempio, permette ai dipendenti dell’azienda che risiedono nel villaggio di andare e tornare dal lavoro senza passare per Gela. Essendo il villaggio autosufficiente, il dipendente Anic può evitare qualsiasi rapporto con la comunità locale. (si raccontano a questo proposito strani episodi come quello del dipendente Anic che ha vissuto più di 4 anni al villaggio senza mai salire a Gela)»
Un esempio che dimostra una certa odiosa mentalità colonialista da parte dell’azienda di Stato, mai del tutto superata, e che si è ripetuta anzi nel corso del tempo. Eni ad esempio non ha mai consultato la popolazione sulla sorte degli impianti che occupano 700 ettari di terreno – prima stabilimento petrolchimico, poi raffineria di petrolio e dal 2019 green refinery alimentata con olio di palma indonesiano – e di cui la maggioranza risulta inutilizzata. Così, mentre la città cresce tanto e male, nessuno si preoccupa di dar seguito a quegli spunti e a quelle intuizioni.
La memoria di quel fondamentale contributo si è perduta presto, se si escludono una manciata di ondate di ritorni di memoria che vanno dalla pubblicazione, a proprie spese, dell’ex sindaco Franco Gallo negli anni Novanta a quella più recente dell’imprenditore David Melfa fino ai ricordi sul Corriere di Gela del giornalista Salvatore Parlagreco. Nella consapevolezza che si tratta comunque di un intervento tardivo, è arrivato il momento di rendere davvero giustizia ai due autori. L’intitolazione di una strada dedicata a Hytten e Marchioni, a distanza di mezzo secolo da quel libro fondamentale e inascoltato, potrebbe significare una nuova consapevolezza da parte di una città che cerca da una parte di cambiare direzione e dall’altra continua a subire le scelte industriali, rincorrendo un cane
che però, forse per via delle sei zampe, corre inevitabilmente più veloce. Mentre non c’è traccia di alternativa a una industrializzazione senza sviluppo, già denunciata cinquanta anni fa.