La Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta a Firenze dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 20 ottobre 2000, si prefissava di promuovere la protezione, la gestione e la pianificazione dei paesaggi europei e italiani. I Piani paesaggistici regionali (Ppr), previsti dall’ex Codice Urbani (anche in base al primo e secondo correttivo al decreto legislativo n.42/2004) restano però ancora sulla carta, con sole tre Regioni italiane ad aver adottato il Ppr. Il caso Basilicata.
In attuazione dell’articolo 9 della Costituzione Italiana, «La Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni di cui all’articolo 117 della Costituzione secondo le disposizioni del decreto legislativo n.54/2004. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale – veniva enunciato nel decreto-legge – concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura. Lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione. Gli altri soggetti pubblici, nello svolgimento della loro attività, assicurano la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale. I privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono tenuti a garantirne la conservazione (comma così modificato dall’articolo 1 del decreto legislativo n.62 del 2008).»
Dopo diciannove anni dalla “storica” firma della Convenzione di Firenze – e dopo quindici anni dall’emanazione del Codice dell’ex ministro per i beni e le attività culturali, Giuliano Urbani – la salvaguardia del paesaggio in Italia restano però ancora sulla carta. Troppi eventi “celebrativi” hanno accompagnato il trascorrere del tempo, non affiancati da atti concreti, ma soprattutto si è voluto far prevalere gli interessi economici che hanno finito per frenare l’applicazione della riforma che avrebbe dovuto tutelare il paesaggio e i beni della Nazione.
LA RIFORMA TRADITA
Dai passati Governi, fino all’attuale, sono numerose le “deregulation” normative operate sull’ex Codice Urbani. Gli urbanisti imputano il fallimento proprio al Codice dell’ex ministro Giuliano Urbani, che avrebbe tenuto separati i beni culturali da quelli paesaggistici. Ma il vero motivo è invece un altro. È da ricercarsi nella volontà dei partiti politici di prevedere il coinvolgimento delle popolazioni locali, ma solo su basi economiche, utilizzando in modo ambiguo ed interessato il concetto di “valorizzazione” (in alcuni casi il coinvolgimento non è stato affatto perseguito). Si è alimentato così il germe del conflitto con una valorizzazione piegata all’interesse economico preminente, relegando la tutela del paesaggio e dei beni ambientali ad un ruolo marginale. La forte conflittualità ha inoltre generato lo stallo che ha bloccato l’adozione dei Piani paesaggistici regionali, favorendo così gli interessi privati.
CONSUMO DI SUOLO
Lo stallo, però, ha prodotto risultati: dalla cementificazione selvaggia alla trasformazione dei suoli forestali e agricoli, dall’eolico selvaggio alle infrastrutture industriali in aree protette e vincolate, nonché alla sdemanializzazione dei suoli. Su queste problematiche il Belpaese è capace ancora di esprimere il peggio di sé. Emergono da questo desolante panorama la “mala gestio” e ancora una volta gli affari. Si è così impoverito e snaturato, assieme al grande patrimonio ambientale, culturale e paesaggistico italiano, anche quello delle Soprintendenze regionali che da enti di tutela dei beni comuni, in base alla Costituzione, hanno finito per essere asservite alle scelte della politica e agli interessi di parte.
IL PAESAGGIO SECONDO LO “SBLOCCA ITALIA” E LO “SBLOCCA CANTIERI”
L’ex Governo Renzi si è caratterizzato per aver applicato la deregulation dei principi dell’ex Codice Urbani, emendato da una serie di “correttivi” e successivamente con norme nazionali e locali settoriali. Si è passati dalla deregulation della legge Sblocca Italia (n.164/2014) al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n.50) nel quale, con la cosiddetta “archeologia preventiva” (articolo 25), viene data alle società private la facoltà di assoldare archeologi e esperti (pagati tra l’altro con tariffe irrisorie) per la redazione di “studi” e “indagini” sul territorio. Questi ultimi hanno altre finalità rispetto alla ricerca storico-scientifica.
Le Soprintendenze si sono viste, in questo modo, espropriare una delle funzioni preminenti, con l’aggravamento della problematica della gestione dei siti rinvenuti e del materiale archeologico scavato, durante la fase di cantiere, spesso da personale inesperto e non qualificato delle ditte interessate. Il recente decreto Sblocca Cantieri (n.32 del 18 aprile 2019) per la realizzazione delle infrastrutture prioritarie e il completamento di quelle ferme, reintroduce inoltre il “silenzio-assenso” con lo snellimento delle procedure delle Conferenze dei servizi e l’accorciamento dei termini previsti dalle norme in materia di tutela dei beni culturali e ambientali.
L’attuazione dell’articolo 9 della Costituzione e la tutela del paesaggio e dei beni ambientali possono ancora attendere.
PER PIANI PAESAGGISTICI REGIONALI I TEMPI INVECE SI ALLUNGANO
In un’Italia a doppia velocità gli affari devono viaggiare (anche se in via solo teorica) più spediti, mentre si allungano quelli per l’adozione/approvazione dei Piani paesaggistici regionali. Il quadro, desunto dal sito del ministero per i Beni e le Attività Culturali, è sconfortante. Su venti Regioni italiane solo tre hanno approvato/adottato il Ppr: Piemonte, Friuli Venezia-Giulia, Puglia. Per due Regioni – Toscana e Lazio – sono in itinere le procedure (per il Lazio solo per alcuni ambiti sono pronti i relativi Ppr per la condivisione con il ministero competente). Per undici Regioni è stata sottoscritta solo l’intesa preliminare con il ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ma non ancora approvato/adottato il Ppr: Liguria, Provincia di Bolzano, Emilia Romagna, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Sardegna. Per le altre quattro Regioni non è stato possibile ricavare informazioni esaurienti.
IL CASO BASILICATA
Dopo aver sottoscritto nel 2016 il Protocollo d’intesa con i ministeri dei Beni e delle Attività Culturali e dell’Ambiente, la Regione – contestualmente all’approvazione della delibera di giunta n.1197 del 19 ottobre 2016 – procedeva ad approvare gli atti di gara per l’affidamento del servizio di “supporto tecnico-scientifico multidisciplinare necessario alla stesura del PPR”, stanziando 490 mila euro per tale servizio.
Un anno dopo, nel mese di marzo 2017, si aggiudica la gara in ribasso la società Coop Laut srl di Padova-ATI Politecnica e Architettura Modena (mandataria) per l’importo di poco più di 279 mila euro (erano sei le ditte partecipanti).
Di recente la Giunta della Regione Basilicata ha rescisso il contratto con la ditta incaricata approvando un atto di transazione, nonostante in data 17 settembre 2019 la ditta incaricata avesse dichiarato l’inizio del servizio. La RTI in data 19 febbraio 2018 aveva inoltrato agli uffici della Regione una richiesta di risoluzione consensuale del contratto, dopo aver percepito il 10 per cento dell’importo, per evitare una lite giudiziaria nel merito della qualità del lavoro svolto che da alcuni verbali risultava non rispondente a quanto richiesto.
Al di là degli aspetti meramente tecnici della controversia, emergerebbero profili politici di diversa natura in merito ai possibili scenari che il Ppr avrebbe potuto impattare su problematiche quali l’eolico e il petrolio sulle quali la Giunta regionale di centrodestra, che ha vinto la competizione elettorale di maggio, ha espresso perplessità, soprattutto sull’operato dell’ex giunta a guida Partito Democratico.
Per inciso, la ditta risultata affidataria e poi rinunciataria all’incarico del servizio per la predisposizione della bozza del Ppr, in passato, ha realizzato la progettazione di diversi impianti eolici in Basilicata.
Attualmente la Regione Basilicata, al di là del tempo che trascorre inesorabile per l’approvazione del Ppr, ancora nella fase preliminare, non ha provveduto ad annullare in autotutela il provvedimento dell’ex Giunta regionale che ha raddoppiato le potenze eoliche ed è impegnata nelle trattative per il nuovo memorandum con le compagnie petrolifere, in scadenza ad ottobre 2019.
Il fattore tempo, ancora una volta, fa intendere quali siano le vere intenzioni che riguardano il territorio lucano.