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Incendio al ghetto di Rosarno. Video inedito dall’Inferno

Un video agghiacciante, girato da uno dei migranti ospiti di San Ferdinando, il ghetto di Rosarno – nel cuore della Piana di Gioia Tauro, in Calabria – mostra le immagini inedite del rogo che il 27 gennaio scorso ha ucciso la ventiseienne nigeriana Becky Moses. Le fiamme e le urla di chi fugge sono la testimonianza, più immediata, delle condizioni nelle quali vivono i migranti di uno dei ghetti più noti della Calabria jonica.

È notte nel ghetto di Rosarno. Ma le fiamme che divampano nel ghetto di San Ferdinando sembrano illuminare l’intera Piana di Gioia Tauro. Le immagini – esclusive – che siamo in grado di mostrarvi, sono state girate da un testimone diretto della tragedia in cui ha perso la vita una giovanissima ragazza originaria della Nigeria. Becky Moses, a soli 26 anni, è vittima di un sistema di accoglienza, quello italiano, che produce ghetti. La soluzione finale di un’integrazione fantasma che genera emarginazione sociale, apartheid e violazione dei diritti umani. Troppo assuefatti alla noncuranza, il problema dei migranti ammassati nei ghetti nostrani non c’è, se si fa bene attenzione a non parlarne. Se si decide, semplicemente, che Becky e tutti gli altri non esistono.

“IO AVEVO PAURA, MA SE NESSUNO VEDE, NESSUNO SA”
Ibrahim – nome di fantasia scelto per tutelare l’identità del nostro testimone – è un giovanissimo senegalese di poco più di vent’anni. Il video shock del rogo nel ghetto di Rosarno lo ha girato lui. “Io ho paura, però se nessuno vede, nessuno sa. Erano le due di notte. Il fuoco c’era fino alle sei al mattino. Allora io prima di scappare, come altri, ho fatto un video. Così tutti sanno.
Se fuggire è l’istinto primario, ciò che garantisce in termini evoluzionistici la prosecuzione della specie, c’è una resilienza selvaggia dell’anima nella scelta di restare, tra le fiamme, per la necessità di dare testimonianza. L’ansia di comunicare, forse a qualcuno, quel che stava accadendo in quel preciso istante diviene più forte della paura di morire nell’incendio.
Io ho sentito persone gridare, poi ho visto questo fuoco. Eravamo tanti, più di due mila persone abitano qua. Poi le persone correvano.
Forse la causa dell’incendio è un braciere lasciato acceso per scaldarsi. O forse, tutto è nato dallo scoppio di una bombola di gas. Non si sa. Ma Ibrahim vuole ricordare Becky, non le fiamme. Ci racconta che la giovane donna era stata cacciata dal centro di accoglienza in cui, appena arrivata dalla Nigeria, stava imparando un mestiere. Aveva scelto di dormire nel ghetto, in una misera baracca circondata da quelle degli uomini, perché non aveva nessun altro posto in cui stare in attesa di una risposta sulla sua richiesta di asilo politico.
Quando stai lavorando, poi a volte loro usano le donne del campo. Loro a volte hanno i coltelli, altre volte fanno male alle persone. Questo è il problema veramente. Ci sono alcune persone cattive, a loro non voglio bene. Qua siamo in Calabria.
Loro, i caporali calabresi, molto speso affiliati delle cosche che si spartiscono il territorio della Piana di Gioia Tauro, sono i cattivi. Ma sono anche quelli che danno lavoro e materialmente nutrono questo esercito minuto di schiavi. Ibrahim è ancora a Rosarno. Il ghetto, pian piano, si sta ripopolando. Lui ha bisogno di lavorare. La stagione è lunga. I 15-20 euro al giorno che riesce a racimolare dal lavoro duro nelle campagne calabresi, gli servono più del pane. Vuole dimenticare, Ibrahim, “il fuoco rosso e la nuvola nera”. Il 27 gennaio scorso questo ragazzo ha vissuto la notte più lunga della sua vita. E, forse, non ha ancora visto l’alba.

NELL’INFERNO DI SAN FERDINANDO
Le immagini del ghetto in fiamme lasciano senza parole. Una nube nera si alza dalle baracche incandescenti. Si sentono le voci confuse di chi cerca una via di fuga. Si intravede chi, tra le ceneri, cerca di raccattare gli ultimi effetti personali. “Samuel, Samuel”, qualcuno grida. Sullo sfondo, di lato, la camionetta dei Vigili del fuoco e l’audacia di alcuni di loro, che tentano invano di vincere le fiamme. Attraverso le immagini, si scorgono appena i volti degli uomini e delle donne che corrono disperati. Tra loro, c’è chi tenta di scansare i tizzoni ardenti che si levano dalle baracche.
Ibrahim, forse senza esserne del tutto consapevole, ci ha restituito la nitida testimonianza di un disastro annunciato. Oggi il nome della vittima è Becky. Un anno e mezzo fa, nel “Ghetto dei Bulgari” di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, un ragazzo di vent’anni perse la vita in un violento incendio causato da una stufa mal funzionante. Eppure sembra che la morte degli emarginati, seppur intessuta di tragedia, non li renda ai nostri occhi più umani.
Perché la storia, in fondo, si ripete sempre uguale. Solo otto anni fa, nel 2010, i migranti che popolavano il ghetto di Rosarno avevano manifestato chiedendo condizioni di lavoro vicine ai limiti dell’accettabilità. Avevano fame di lavoro. Anche se nello loro baracche fatiscenti non c’erano acqua potabile e servizi igienici. Anche se erano considerati dai caporali locali poco meno che reietti. Oggi, una volta spenti i riflettori sul teatro dell’ennesima tragedia, a Rosarno tutto è tornato come sempre. C’è il ghetto. C’è la schiavitù. C’è la memoria. Ma quella è degli emarginati. Per tutti gli altri, è sempre meglio fingere di non sapere.

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Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.