«Questi governare qua è cattivo, questi governare qua è mafia e mandare noi qua, capito?»
Questo che vi mostriamo è un video inedito girato con un telefonino da uno dei migranti “ospiti” del ghetto di Rosarno. Sulla nota baraccopoli di San Ferdinando – nella piana di Gioia Tauro, nel cuore della Calabria jonica – si accendono le luci della ribalta per la seconda volta nel corso di questo convulso 2018.
Il 27 gennaio scorso è toccato a Becky Moses, una giovane nigeriana di 26 anni morta tra le fiamme del rogo divampato tra le baracche a causa, pare, dell’esplosione di una bombola a gas.
Qualche giorno fa, invece, è stata la volta di Soumaila Sacko, il ventinovenne di origine maliana fucilato da un cecchino mentre si accingeva a recuperare lamiere per la sua stamberga.
Becky e Soumaila, pur nella diversità delle vicende, sono accomunati dallo stesso infausto destino. Sono i due volti di una tragedia umana le cui radici affondano nell’indifferenza: quella dello Stato e delle istituzioni. La nostra. Linfa vitale per chi specula sulle vite degli emarginati di qualsiasi razza, etnia, sesso o religione: la mafia.
LA TESTIMONIANZA
Christian – nome di fantasia scelto per tutelare l’identità dell’autore del video – ha paura. La sua voce trema, in più passaggi. Parla per farsi ascoltare, anche se non vuol essere intercettato da occhi e orecchi indiscreti. Si aggira convulsamente tra i furgoni e le baracche che costellano il ghetto di San Ferdinando per descriverci, attraverso le immagini, le miserevoli condizioni in cui sono costretti a vivere lui e i suoi “fratelli”. Vuol farsi capire, nonostante le difficoltà che ha a esprimersi in italiano. Vuol trasmetterci un messaggio preciso fatto di terrore e audacia al tempo stesso. Christian ha capito, prima di molti di noi, che il prezzo dell’omertà è la vita di un altro essere umano come lui. Come noi. Christian, oggi, ci insegna il coraggio di esporsi, in prima persona, anche quando un tuo compagno viene sparato alla testa.
Abbiamo scelto di non modificare le immagini del video. Lo abbiamo fatto, in coscienza, nell’intento di voler trasferire l’essenza di ciò che Christian decide di raccontare. Le immagini non sono nitide e le parole, spesso, appaiono confuse. Ma vanno ascoltate con attenzione. Perché questi, con tutta probabilità, sono i due minuti e cinquanta secondi più lunghi della sua vita.
«QUESTI GOVERNARE QUA È MAFIA»
Mafia è la parola d’ordine. Mafia è la parola che pochi, pochissimi, hanno il coraggio di pronunciare. Forse la ‘ndrangheta non è la mandante dell’omicidio a freddo di Soumaila. Ma di certo è la mano oscura che tiene ben salde le redini, e i destini, dei migranti che popolano il ghetto di Rosarno. Soumaila nella baraccopoli non è più tornato. Di Becky, ormai, non resta che polvere. Eppure le loro storie, così diverse e così simili, ci narrano una realtà che non possiamo più fingere d’ignorare.
«Queste persone qua è cattivo, veramente», afferma Christian in un passaggio. «Questa prima cosa, dove persone dormire, hai visto? Questo è campo dove persone dormire, questo è baracche, hai visto? Così noi dormiamo…Tante queste cose, qua dove cucinare, qua dove dormire pure. […] Non lo so come deve fare. Questo letto qua tre persone dormono qua, (nella baracca, ndr) sette persone dormono qua. Hai visto, qua sto male, come deve fare. Questi governare qua è cattivo, questi governare qua è mafia e mandare noi qua, capito? Come deve fare, per forza vivere qua. Forse dormo qua, però posso dormire sulla strada perché non c’è tanto posto per dormire.»
VENTI EURO PER UNA GIORNATA DI LAVORO
Di Soumaila Christian sceglie di non parlare. Il ricordo è ancora troppo vivido. Ma le condizioni in cui lavorano i braccianti sono allucinanti. E quelle, Christian, le descrive con dovizia di particolari.
«Verimente noi siamo qua. […] Qualcuno porta noi lavorare ma no paga bene, hai capito? Paga male. Una giornato cominciare alle sei fino alle cinque 20 euro, qua sto male (ma) deve vivere qua. Non lo so come deve fare vivere così. […] Qua dove bagno, questo piccolino qua. Qualcuno dorme qua, (in) questo furgone rotto […] L’altro giorno non ti pago, capito? Qua sto male, ma come deve fare. […] Tante cose verimente noi viviamo qua. Qua dove abitare, chiamo ghetto. Così deve vivere qua forse.»
Così vivono e muoiono questi ragazzi. Insieme a tanti altri, nella miriade di ghetti malcelati alle coscienze dormienti. Baracche fatiscenti, vecchi furgoni dismessi, stamberghe in legno e lamiera, coibentate col cartone, sono le loro case. In cui dormono anche in sette persone alla volta. Bombole di fortuna sono il fuoco che li riscalda in inverno e l’aiuto in cucina per l’estate. Poi ci sono i capò, quelli che molti di loro definiscono «i padroni», che stabiliscono sommariamente gli orari di lavoro, le paghe giornaliere, le modalità di pagamento. E si spartiscono, impunemente, i guadagni. Generando profitti – a tutto vantaggio delle agromafie – che la Direzione nazionale antimafia quantifica in circa 12,5 miliardi di euro.
LE “NUOVE MAFIE”
«Queste organizzazioni criminali, che corrispondono ai criteri fissati nell’articolo 2 della Convenzione di Palermo e che hanno aggiunto l’attività prevista dai due Protocolli (immigrazione clandestina e tratta) alle tradizionali loro attività (traffico di droga, auto rubate, tabacchi) vengono oggi indicate anche sul piano internazionale, con il termine di “nuove mafie” transnazionali, proprio perché esse gestiscono questo nuovo mercato con tutte le caratteristiche del modo di operare delle tradizionali organizzazioni mafiose.»
Il termine «transnazionali» – coniato ancora una volta dalla Dna, cui fa riferimento il virgolettato – riferito alle organizzazioni criminali che gestiscono anche i flussi migratori illegali e sfruttano i migranti per fini di lucro, viene utilizzato per descrivere la capacità di questi sodalizi, composti di persone di diversa nazionalità, di operare contemporaneamente in più Paesi e in più mercati illeciti. Un sistema che attraversa trasversalmente ogni angolo della nostra penisola. Valido, per intenderci, tanto a Rosarno quanto a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. Nell’audizione del 19 ottobre 2015 l’allora Procuratore nazionale aggiunto, Giusto Sciacchitano, riferisce alla Commissione antimafia che per le nuove mafie «una persona umana è esattamente equiparabile – mi scusino – a un pacco di cocaina. Entrambi questi oggetti di traffico – dobbiamo dire così – hanno un Paese d’origine, uno di transito e uno di destinazione. Per la droga è evidente, e allo stesso modo è per la persona.»
Nel “mandamento ionico” la ‘ndrangheta rappresenta ancora oggi un vertice criminale capace di dirimere le controversie interne, esercitando il potere di aprire o chiudere locali, dare il nulla osta per omicidi eccellenti e, non ultimo, gestire il flusso di migranti stranieri, regolari o irregolari. Un potere di cui, a San Ferdinando, si avverte costantemente la presenza.
Sintomo, dunque, che la “pacchia dei migranti”, come pure è stata definita dall’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini, non inizia oggi e non terminerà neppure domani.