“L’Ilva per me è stata come una famiglia. Ognuno ha sempre insegnato agli altri e ci siamo sempre coperti e aiutati.” Queste sono le parole di Vincenzo Pignatelli, ex operaio Ilva, riportate nel romanzo “Veleno” di Cristina Zagaria.
La storia di Vincenzo è nota a chi ricerca testimonianze che parlano di malattia e sofferenza, racconti che suscitano rabbia e rassegnazione. Ma Vincenzo, nonostante il suo calvario, non si è mai rassegnato. Ecco come un ex operaio Ilva, dopo aver vinto la battaglia per la vita, ha poi deciso di affrontare un lungo percorso giudiziario per il riconoscimento del danno biologico.
Vincenzo Pignatelli, oggi, ha 63 anni. Ed è l’unico della sua squadra, nel reparto sottoprodotti, ad essere sopravvissuto e a poter raccontare. Tutti i suoi compagni sono deceduti per la leucemia. Vincenzo è stato colpito da una forma più rara della stessa malattia, la leucemia mieloide acuta. Una neoplasia delle cellule del sangue caratterizzata dalla rapida crescita di globuli bianchi anormali che si accumulano nel midollo osseo e interferiscono con la produzione di cellule del sangue normali. Solo un trapianto di midollo – donatogli da sua sorella – ha restituito a Vincenzo la speranza di continuare a vivere. La malattia, i cicli di chemioterapia e di radioterapia, hanno profondamente segnato il suo corpo, ma dopo la guarigione ha voluto vederci chiaro per individuare le responsabilità e per il riconoscimento della malattia professionale e del danno biologico.
LA BATTAGLIA SILENTE
Nel 2009 comincia la sua battaglia giudiziaria. Silente. Vuole farlo per sé, ma anche per i suoi compagni che non ce l’hanno fatta. Tutto ha inizio quando Vincenzo Pignatelli presenta all’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro (Inail) la richiesta per il riconoscimento del danno biologico, avendo lavorato per diversi anni all’interno di reparti – in particolare quello denominato “sottoprodotti” – nei quali ha manipolato e respirato ingenti quantitativi di benzene e benzolo. Sostanze chimiche cancerogene.
“In quei reparti – dice Vincenzo – le analisi per la diossina erano previste solo quando si verificavano incidenti agli impianti, e il PCB, l’apirolio, utilizzato nei trasformatori elettrici per il raffreddamento e la lubrificazione, non essendo infiammabile a differenza del suo sostituto olio minerale, noi lo usavamo per lavarci le mani, come sgrassante. Nessuno di noi sapeva quali fossero i rischi a cui ci esponevano.” Ma gli agenti chimici a cui questi operai sono stati esposti erano innumerevoli. “Mi sentivo sempre debole e avevo spesso la febbre, non riuscivo a svolgere le attività quotidiane più normali e le mie condizioni andavano peggiorando”, racconta ancora Vincenzo, che abita nel quartiere Paolo VI di Taranto, il più esposto ai fumi dell’Ilva, insieme al rione Tamburi. I suoi amici sono morti tutti: uno a 47 anni, uno a 52 e l’altro a 60 anni. Vincenzo lavorava nel reparto sottoprodotti a venti metri dalla cokeria. Aveva sempre la visiera, i guanti di amianto per proteggersi dal fuoco, ma non sapeva che l’aria che respirava lo stava uccidendo.
Nelle tabelle delle malattie professionali nell’industria – di cui all’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica n.1124/1965 e successive modifiche e integrazioni (allegato numero 4) – la leucemia mieloide acuta è proprio causata dall’esposizione a idrocarburi aromatici mononucleari (benzene e derivati). Ma per l’Inail la domanda di Vincenzo non può essere accolta perché non c’è alcun nesso di causalità. Secondo l’Inail ad essere caratterizzati dall’esposizione a benzene erano ben altri reparti e non quelli frequentati per anni dall’ex operaio. Della stessa opinione è l’azienda, l’Ilva, che ovviamente sostiene in toto la posizione dell’Inail.
IL RICORSO AL GIUDICE DEL LAVORO
È a questo punto che Vincenzo Pignatelli decide di presentare ricorso presso il giudice del lavoro del Tribunale di Taranto. Dopo sessanta giorni dal mancato accoglimento della sua domanda da parte dell’Inail. L’iter giudiziario ha inizio con la nomina del CTU, Ennio Pavone, che subito conferma la perizia di parte dell’ematologo Patrizio Mazza che certifica, in maniera inequivocabile, che il danno biologico è senz’altro dovuto al contatto prolungato con i derivati del benzene, ai quali l’operaio è stato esposto per anni. Successivamente il giudice chiede chiarimenti in merito al parere presentato dal CTU nominato che, inaspettatamente, cambia le carte in tavola presentando un parere completamente opposto a quello del dottor Patrizio Mazza. Per Vincenzo è un brutto colpo e chiede al suo avvocato, Bruno Semeraro, di avanzare richiesta di nomina di un nuovo CTU. Il giudice, accogliendo la richiesta, nomina il dottor D’Elia, il quale si allinea al parere del perito di parte.
IL RICONOSCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO
Tra alti e bassi, Vincenzo non molla, e finalmente il 16 dicembre 2015 si arriva a sentenza. Una sentenza esemplare. L’Inail è costretta a riconoscere una rendita di malattia e il danno biologico. Tradotto in cifre, l’ente ha dovuto versare sul conto dell’ex operaio ben 190 mila euro ed una rendita di malattia pari a 2.400 euro al mese per il resto dei suoi giorni. Si tratta di una sentenza importante. Un modello da seguire per molti altri operai. Il percorso giudiziario di Vincenzo e il risultato ottenuto non hanno fatto notizia. Noi ve lo abbiamo raccontato per la prima volta. Certo, Vincenzo non potrà mai essere ripagato per gli anni di vita trascorsi a lottare contro un male che, sebbene sia riuscito a sconfiggere, lo ha trasformato in un vecchio. Ma ce l’ha fatta. Il suo attaccamento alla vita e la sua tenacia gli hanno fatto vincere due battaglie: una per la vita, una per la giustizia. Nell’Ilva gli operai sono considerati come dei numeri. Svolgono le proprie mansioni con rassegnazione, sperando di non essere i prossimi a doversi ammalare e morire.