Fuoricampo è un diario pensato per dar voce agli invisibili. Un viaggio a puntate alla scoperta delle storie dei nuovi schiavi, dei nuovi emarginati d’Italia. A parlare sarà la realtà. Nessuna costruzione, nessun archetipo. Come Caronte, Ibrahim – un ragazzo senegalese, uguale a tanti altri, che vive nel ghetto Chitomeni, uno dei tanti del Sud Italia – ci traghetterà nell’Inferno di una quotidianità che non ci appartiene. Perché solo quando l’intangibile si può toccare, diviene reale. E solo raccontando queste storie i loro protagonisti potranno finalmente avere un volto, un nome e una voce. Un grido di speranza che raggiunga le coscienze, fuori dal campo.
Questo nostro tempo / fa ronzare le api di rabbia
impregna gli animi di parole smisurate / e prepara il giorno del capestro notturno.
Questo nostro tempo / rode il midollo del muscolo del dolore
gonfia il cuore di amarezza con pose incuranti / e fa della giustizia una opportunità
Questo nostro tempo / s’inchina davanti al sospetto
moltiplica le menzogne nelle poltrone a dondolo / sposa la verità sull’altare del diavolo
Questo nostro tempo / nutre troppo il presente del passato
capovolge ogni immaginazione / e rovina la coscienza con l’ambizione
Questo nostro tempo / graffia il dorso della scimmia
mangia fiamme davanti al pubblico invitato / e tinge la pelle per il proprio sudario
Questo nostro tempo / ascoltare il rumore delle foglie che cadono
guardare i relitti di auto sinistrate / e cedere davanti al compromesso
Questo nostro tempo / affondare i denti in un frutto marcio
bere l’acqua dei pozzi avvelenati / e cantare dei vecchi inni a delle veglie funebri
Questo nostro tempo è solo un poco inquinato.
(“Questo nostro tempo” di Sipho Sepamla, Sudafrica)
PROLOGO
Il pullman parte all’1.55 del mattino. È la linea diretta che, dalla stazione ferroviaria di Foggia, porta fino a piazzale Tiburtina, a Roma. Fa freddo. Ibrahim si sistema la giacca di pelle rattoppata che ha indossato per proteggersi dal vento umido, e aspetta. L’appuntamento in Questura è fissato per le 10.30. “Ci esta tempo”, pensa.
Per quanto si sforzi di apparire calmo, non fa altro che torturarsi nervosamente le mani callose, con le unghie ancora sporche di terra. Ibrahim si vergogna un po’ delle sue mani. La sola consolazione è che nello zainetto che porta in spalla c’è la camicia buona, quella che ha scelto per il grande incontro con i funzionari della Questura di Roma. L’abito fa il monaco, e lui lo sa.
Nulla è lasciato al caso. Ha passato gli ultimi mesi a prepararsi incessantemente a vivere questo momento. Ora che è arrivato, è come assalito dalle vertigini. Se tutto andrà come spera, il soggiorno romano sarà una pura formalità. I poliziotti gli rinnoveranno il permesso temporaneo e, contestualmente, gli consegneranno la comunicazione della Commissione sulla sua richiesta di protezione internazionale. Chissà, forse tra qualche mese potrebbero chiamarlo da Crotone per il nuovo colloquio con la Commissione. Chissà, forse stavolta le cose andranno diversamente. L’avvocato romano che gli ha venduto speranze a caro prezzo, si è detto ottimista. Con i nuovi documenti e la nuova storia, la protezione internazionale di Ibrahim sarà una pura formalità.
È un bel tipo l’avvocato, il signor Pi. L’ha incontrato per la prima volta alla fermata dei tram della stazione Termini, a Roma. Era circondato da un nugolo di richiedenti asilo, proprio come lui. C’era chi voleva mostrargli i documenti, chi tentava di contrattare sulle tariffe dell’onorario e chi, semplicemente, era a caccia di informazioni utili. Ibrahim era con loro, tra loro. Voleva capire, voleva sapere. Quando ci ripensa, una vampata di calore gli infiamma le gote. È arrabbiato. Le pratiche per la protezione internazionale gli stanno costando troppo. L’avvocato gli ha chiesto 600 euro: “Tricento subito, più i soldi di carte, gli altri quando ho documenti”, mi ha confessato tempo fa. Poi però, dopo la prima tranche di pagamento, il signor Pi è diventato sfuggente. Ibrahim non si fida di lui, ma al momento può solo aspettare e sperare. Lo ha chiamato più volte. Fino a quando, qualche giorno fa, il signor Pi ha finalmente risposto. E lo scaltro Ibrahim ha registrato la telefonata.
“Sì pronto, con chi parlo?”, risponde l’avvocato evidentemente inconsapevole dell’identità del suo interlocutore.
“Sono Ibrahim…” inizia, timido.
“Sì lo so, lo so caro, come stai?” Finge, il signor Pi, ma il tono è più disteso. I convenevoli sono importanti.
“Tutto bene…”, risponde come al solito Ibrahim.
“Bene, bene. Dimmi tutto caro…”
“Io tra poco devo venire a Roma, perché mi hanno dato appuntimento ti ricordi?”, prova calmo Ibrahim.
“SSì, ssì, me l’hai fatto vedè l’altra volta”, lo interrompe distratto l’avvocato.
“Ah… Quindi… Non c’è bisogno niente di portare alla Questura?”, chiede sconcertato.
“No no, tranquillo, è tutto quanto ok. Va bene?”, continua in tono accomodante il signor Pi.
“Ok”, risponde poco convinto Ibrahim.
“Va bene.”
“Ok, va bene, quindi…” ritenta imperterrito. Ma è troppo tardi. Il signor Pi ha chiuso la telefonata. Poco dopo, spegnerà anche il telefono.
TI FACCIO UNA STORIA
La prima richiesta di protezione internazionale è andata male. Del resto, cinque anni fa, Ibrahim non conosceva il sistema. Non sapeva, povero ingenuo, che per inoltrare richiesta d’asilo basta recarsi in Questura. Nessuno si è preoccupato di spiegargli che non avrebbe dovuto pagare un legale perché, in mancanza di un regolare permesso – e dunque delle possibilità di ottenere lavoro e retribuzione regolari – Ibrahim avrebbe avuto diritto al patrocinio legale gratuito. Nessuno gli ha detto che anche lui ha diritto di essere persona, di esistere. Sono affari, è solo business.
Durante il primo colloquio con la Commissione territoriale di Crotone è incerto. Si limita a dare informazioni generiche sulle ragioni che lo avrebbero condotto in Italia.“Furto di vacche”, così liquida la questione tacendo tutto il resto. Non vuole fare una brutta impressione.
Ma le sue ragioni non sono abbastanza valide. La sua storia sembra campata in aria, buttata lì, a caso, quasi con noncuranza. La Commissione respinge la sua richiesta d’asilo e dichiara che non ci sono, al momento, i presupposti per ottenere la protezione internazionale.
È in quel momento che la sua strada si incrocia con quella del noto avvocato romano. Sollecitato da un amico, Ibrahim si rivolge a lui. È disperato. Ma il signor Pi è rassicurante. Chiede a Ibrahim di farsi mandare un documento dal Senegal. Serve per costruire la sua storia, così gli lascia intendere. E la storia parte dal fatto che nei Paesi musulmani – specie in alcuni Paesi africani – l’omosessualità può essere considerato un crimine penalmente perseguibile. Di qui, la richiesta del signor Pi: se Ibrahim riesce a ottenere una dichiarazione sulla propria omosessualità redatta nella regione di Tamba – in Senegal – allora sarà semplice avallare la nuova richiesta di protezione internazionale e sovvertire il risultato negativo precedente. All’avvocato, insomma, non piace perder tempo. Se i suoi assistiti non vengono da Paesi funestati da guerre o condizionati da situazioni di crisi internazionale, allora ci si gioca la carta del gay contro l’Islam. Facile, quasi come farsi pagare – a nero – da un richiedente asilo.
Ma Ibrahim non è omosessuale. Ha una moglie, Khadija, di 29 anni. E due bambine, Aissata e Ramata, di 9 e 7 anni. Si è sposato per amore. Tra tutte, ha scelto la sua Khadija. Poi è andato a parlare col padre di lei, ha dimostrato di avere i mezzi per prenderla in moglie e darle una vita dignitosa, così come da tradizione nel villaggio di Godieyel, nella regione di Tamba. Pensa a tutto questo mentre, a malincuore, si fa spedire quel maledetto documento dal Senegal. Il signor Pi gli ha fatto capire che questo è il solo modo che gli resta per sperare di ottenere la protezione internazionale. Ma Ibrahim è dilaniato dai sensi di colpa. No, non c’entra la religione, lui pensa a Khadija. Agli occhi, alle labbra di Khadija, alle sue mani dolci. Poi ricorda Aissata e, soprattutto, la piccola Ramata, che non ha nemmeno visto crescere. È per loro che accetta. Per dare a loro, e a Khadija, la possibilità di continuare a condurre una vita libera e dignitosa. La dignità che conta tanto, per lui che sente di averla perduta.
ROMA, NUN FA LA STUPIDA
Anche a Roma fa freddo. O così sembra a Ibrahim, che ha passato la notte sveglio a rimuginare. È davanti ai cancelli della Questura da circa trenta minuti. Aspetta il suo turno con pazienza, come sempre. Ma non è calmo. Teme che qualcosa sia andato storto. E ne ha motivo. In Questura gli fanno sapere che il nuovo documento – quello che attesterebbe la sua omosessualità – non è mai stato consegnato. E che la Commissione territoriale di Crotone, nell’esaminare la sua richiesta di protezione internazionale, ha ritenuto sussistenti i requisiti che avevano condizionato la precedente pronuncia d’inammissibilità. “Di tanto si dà notizia”, si legge nella nota inviata dalla Commissione “ai sensi dell’articolo 29 del decreto legislativo n.25/2008, avvertendo che potrà presentare osservazioni a sostegno dell’ammissibilità della domanda entro tre giorni dalla ricezione del presente atto, in mancanza dei quali quest’ufficio provvederà ad adottare la decisione.”
È una doccia gelida. Ibrahim è pietrificato. Niente ammissibilità, niente documenti, niente protezione internazionale. Quello che viene dopo, è convulso e confuso. Ibrahim chiede spiegazioni e il funzionario della Questura risponde che il suo legale non ha inviato nessun nuovo documento in Commissione. Ribadisce che gli restano tre giorni di tempo per recarsi a Crotone e gli consiglia di contattare immediatamente il suo avvocato. Gli lascia intendere che alla scadenza del prossimo permesso temporaneo – alla fine di giugno – se persisteranno le condizioni di inammissibilità, saranno costretti a procedere con l’espulsione. È l’ultima parola che vuole sentire. “Questo l’avvocato nona fatto niente”, mi scrive in un messaggio. “Ora io cerca di parlare con lui ma o tanta paura per tuto cuesto.”
Ci prova. Vuol sapere che fine abbiano fatto quei benedetti documenti da mandare alla Commissione territoriale di Crotone. Vuol capire cosa deve fare, quali saranno le prossime mosse. O almeno, vuole incontrarlo per dirgliene quattro, una volta per tutte. Lo chiama per la prima volta. Nella registrazione si sente distintamente il signor Pi ribadire: “Loro vogliono che ci siano le prove dei documenti nuovi che tu hai preso dal tuo Paese. Le hai fatte ste prove? Le hai date a loro?”
“Io gli ho dato a loro prima, però mi hanno detto che lo devo mantenere…”, risponde Ibrahim.
“Eh ho capito, invece t’hanno fatto un bello scherzo perché lì risulta che non c’hai nessun documento”, arringa l’avvocato, sulla difensiva.
“Eh, eh… io…”, tenta di spiegarsi Ibrahim.
“Eh non hai capito forse, forse non so chiaro”, lo interrompe bruscamente il signor Pi. “Te lo dico subito: quei documenti nuovi sono quei documenti che tu devi mandare entro tre giorni … Senti aspetta un attimo è chiaro, è inutile che vieni qua, aspetta un attimo…”
“Però fammi venire a Lepanto. Capito?”, prova ancora Ibrahim. Vuol andare allo studio, a tutti i costi. Cade la linea, ma lui non è disposto a mollare la presa. Richiama ancora.
“Guarda l’ho visto esattamente, oh mettilo qua dentro tu”, risponde il signor Pi rivolgendosi a qualcun altro. “Allora guarda Ibrahim”, riprende, “tu devi andare alla Commissione territoriale di Crotone, domani mattina a sto punto, perché oggi è mercoledì quindi c’hai giovedì e venerdì. Entro due giorni, e la devi portare a loro…”
“E tu… e tu non riesci a mandare?”, domanda allibito Ibrahim.
Non riesce a credere di dover fare da solo, in appena due giorni, quello che il suo legale – profumatamente pagato per la prestazione – non ha fatto nell’arco di mesi. Portare a mano la documentazione alla Commissione, a Crotone: che assurdità.
“Ma no, dice che deve essere portata, non deve essere comunicata. Se tu leggi, c’è scritto portata. Ma io non ho capito, scusami tanto… Tu hai preso i nuovi documenti e non gliel’hai dati alla Questura?”, tenta furbescamente il signor Pi.
In realtà, nella citata informativa della Commissione di Crotone non v’è riferimento alcuno al fatto che la documentazione vada consegnata a mano. Ma d’altro canto il suo cliente è senegalese. Non legge bene l’italiano, cosa vuoi che ne capisca. E poi è sufficientemente spaventato per essere disposto a fare qualsiasi cosa pur di risolvere il problema. Ma Ibrahim è testardo e non ci sta.
“Senti, sai cosa facciamo?”, lo interrompe deciso. “Fammi venire a Lepanto e parliamo faccia a faccia, hai capito?”
“Vabbè, parliamo faccia a faccia dai…”, risponde poco convinto il signor Pi. “Però vieni subito che poi me ne vado eh… Oh, non prende l’autobus, che co l’auto ce metti tre ore eh… Prendi la metropolitana, eh…”
“Essì, devo prendere metropolitana…”
“Però non t’aspetto eh, perché io so stanco, c’ho i processi fra un’ora”
“Allora, mandami indirisso di estudio, mandami indirisso!”, continua imperterrito Ibrahim.
“Sì ma all’ufficio non te ricevo subito perché me devo anche riposare, verrai verso le sei (18.00). Te do tutto, ma vieni verso le sei, vieni…”, risponde seccato l’avvocato.
“Allora mandami indirisso di estudio, io anche pomeriggio posso andare…”
“Va bene, va bene va…vieni dopo…”.
EPILOGO
Lepanto, fermata della metro A di Roma. Del signor Pi non c’è traccia da nessuna parte. Ibrahim lo richiama ancora. E ancora.
“Pronto? Pronto?”, tenta alzando il tono di voce.
“Oh Ibrahim senti”, risponde il signor Pi. “Io so caduto dar sonno pe la stanchezza. Vieni domani mattina in Tribunale. Vieni domani mattina…Ok?”
“Ma come, non puoi venire allo estudio?!”, chiede attonito Ibrahim.
“No adesso sto a dormi’ guarda, te dico la verità c’ho un sonno pazzesco. C’ho na stanchezza che me se magna. Vviè ddomani mattina in Tribunale, a Lepanto…”
“E io come deve venire?! Io documenti che deve mandare…”, spiega Ibrahim parlando in modo concitato.
“A Lepanto, ca metropolitana, come sei arivato oggi”, lo interrompe sornione l’avvocato.
“No, ascoltami, ascoltami…”
“Oh io ho capito, io c’ho un sonno pazzesco devo fa na dormita pazzesca perché ho lavorato fino adesso, e ho visto anche il foglio tuo. Vieni domani in Tribunale e ne parliamo, dai. Vieni domani mattina, dai”, inizia ad alterarsi il signor Pi.
“E quindi?! Io…”
“A Lepanto, a Lepanto, vieni a Lepanto alle nove e mezza, dai!” Ora il tono di voce è decisamente alto. Il signor Pi non sembra più così tranquillo.
“Ho capito, ho capito. Però a me io dove devo andare, il foglio dice che devo andare a portare…”, prova a ribadire Ibrahim, ma l’avvocato lo interrompe bruscamente.
“Allora Ibrahim te l’ho già detto oggi, prendi questo foglio che tu hai, che ti hanno dato, e lo devi portare alla Commissione territoriale di Crotone. Tutto qua, basta. Te lo dico già da adesso. Vai alla Commissione territoriale di Crotone, poi domani mattina…”
“E come devo fare?! E come devo andare…”, tenta ancora Ibrahim, ma viene sopraffatto.
“E fallo! E fallo! Ibrahim, e vai… vai domani mattina, qual è il problema. Vai, va…”
“Però io volevo…io volevo…”
“Che te devo di?! Che te devo di, Ibrahim?! Che devo dirti di più? Vai domani mattina e porta sti documenti alla Commissione. I documenti che tu c’hai, li prendi, e li porti in Commissione territoriale…”, risponde ancora il signor Pi tentando di dominarsi.
“E quindi tu non mi puoi dare qualche documento che viene da te, che dice che io…”
“Ma che te devo dà io?! E che te do io i documenti, Ibrahim? I documenti so tuoi. Ch’è, l’avvocato te dà i documenti ‘mo? Sei tu che porti i documenti, l’avvocato ti dice dove portarli. Ma te l’ho già detto stamattina. Li devi porta’ alla Commissione territoriale de Crotone. Io non è che te devo dà documenti, gli avvocati non danno documenti, sei tu che c’hai i documenti. Li porti domani mattina alla Commissione territoriale di Crotone. Basta, tutto qua. Vai domani mattina lì. A Crotone. Vai, va!”
La telefonata si chiude così. Con un colpo di spugna, sono fuggite via le speranze di Ibrahim. Non riesce più a mettersi in contatto con il signor Pi, ma ormai ha poca importanza. Da lui non otterrà nulla. E andare a Crotone in queste condizioni, privo di assistenza legale, non ha senso.
Si ricorda del mio amico avvocato e dell’assistenza gratuita e per un attimo gli si illumina il viso. Sì, lo chiamerà. Domani, però. Oggi, il castello di sabbia delle sue fragili illusioni è stato spazzato via da una folata di vento, in un incerto pomeriggio romano. E questa è una ferita che brucia ancora. Domani sarà di nuovo il tempo per ricostruire la speranza. Oggi, Ibrahim, è troppo stanco. Decide di tornare al ghetto Chitomeni. Perché in questo universo malsano, persino un ghetto è preferibile al falso benessere che si respira fuori. Almeno lì, a Chitomeni, è tutto dannatamente vero. Poi, dopo aver sprangato la porta della baracca, puoi persino dimenticare dove ti trovi. E sei libero di pensare, finalmente, a Khadija.