2009-2019. Dieci anni dal sisma dell’Aquila che ha sconvolto una terra e una comunità. “Zona Nostra” è il nostro esclusivo reportage dall’Abruzzo.
A L’Aquila tutto sembra normale. In ricordo del sisma che ha scosso la città, nella notte del 6 aprile di dieci anni fa, ci sono solo le gru che svettano ancora sui tetti. Ma l’illusione del tran-tran è presto spezzata: i vicoli del centro storico e quelli dei paesi limitrofi hanno altre storie da raccontare. Ce ne parlano i diretti interessati. Chi quei luoghi li ha odiati e amati, abbandonati e riconquistati. Benvenuti nella provincia del più grande cantiere d’Europa. Benvenuti in «Zona Nostra».
LA CITTÀ
«Devi mettere da parte quella che per te è la normalità. Questo è un piccolo mondo a sé». Mi accoglie così l’antropologa Rita Ciccaglione, che a L’Aquila vive e fa ricerca da dieci anni. «Esiste un pre e post terremoto è vero, ma il sisma non è una frattura. Il terremoto non rompe, accelera. Devi cercare di comprendere la situazione di questo mondo dove a volte tutto è il contrario di tutto.»
Basti pensare al rapporto degli aquilani con il centro storico. Lo chiamano «la città» e della «città» amano ogni singola pietra in maniera quasi morbosa. Perfino i sampietrini. Le antiche pietre di pavimentazione devono essere raccolte con massima cura dagli operai dei cantieri. Guai se vengono minimamente danneggiate o scalfite. Tutto deve rimanere il più fedele possibile al pre-sisma e quando a Via delle Streghe – chiamata così perché è un vicolo senza porte dove la gente spariva – viene installata appunto una porta, la gente s’indigna, gridando di essere stata derubata della storia del vicolo. Ma la «città» non è solo la storia e la tradizione de L’Aquila. Non è – o meglio non era – il fulcro della vita sociale, luogo d’incontro tra vicoli e negozietti. Questo fino a prima del terremoto.
«Io faccio avanti e indietro il sabato e la domenica per il corso, prima era pieno di gente, adesso sai dopo la messa quante persone c’erano? Le ho contate. Per il corso c’erano venti persone in tutto. Vengono, sentono la messa, e se ne vanno. Per il resto della settimana è il deserto. Solo gli operai dei cantieri. ‘la città’ non la vive più nessuno». Così si sfoga un anziano signore passeggiando, con noi, per il corso.
Anche Rita mi racconta di come molti aquilani iniziano a dimenticare i nomi dei vicoli del centro storico. «Non girano più. Le uniche vie che si vivono ancora sono il Corso e via Garibaldi. E questo grazie ai locali della movida notturna. Solo bar e locali. Diventa difficile perfino trovare un alimentari.»
Eppure la ricostruzione sembrerebbe andare avanti, sebbene con lentezza e senza un programma ben preciso. Strade chiudono e riaprono in continuazione per i lavori in corso. In mezzo a palazzoni moderni appena ultimati spuntano rovine di antichi edifici pericolanti che, alla prima raffica di vento, perdono ancora pezzi e tegole. C’è anche chi il proprio palazzo se l’è visto richiudere subito dopo la ricostruzione. Come Giancarlo, proprietario di uno dei locali storici dell’Aquila, “La Marchigiana”.
«Ora siamo in questo vicoletto ma prima eravamo sul Corso. Tu ci hai trovato perché ti ci ha portato Rita, ma se no chi ci trova qui. Una signora una volta ci ha raccontato che ci ha ritrovato passando e riconoscendo il profumo. Ma tanti clienti storici non sanno che abbiamo riaperto. Prima sul Corso avevamo un locale grande, storico, col soffitto a botte. Era stato ricostruito, dovevamo ritrasferirci lì. Poi è arrivato lo smart tunnel.»
Lo “smart tunnel” è una galleria sotterranea dentro la quale passeranno i principali sotto-servizi della città, come acqua, luce e telecomunicazioni. L’innovazione risiederebbe nel fatto che inserendo tubi e cavi in questo tunnel percorribile a piedi dai tecnici, in caso di eventuali guasti o lavori di manutenzione, gli interventi diventerebbero più semplici e più veloci, senza la necessità di forare strade o altro. Sembrerebbe davvero tutto molto bello e innovativo se non fosse che tale opera non è stata coordinata con il resto della ricostruzione, né progettata, all’apparenza, per una città come L’Aquila. «Dovevano far passare lo smart tunnel davanti al negozio, quindi ho deciso di aspettare ancora prima di aprire. Altrimenti che facevo, aprivo per qualche giorno, poi mi richiudevano la strada davanti, e comunque avrei dovuto richiudere. Per fortuna che ho aspettato, anche a muovere le attrezzature del locale come i forni e il resto. Perché appena hanno fatto gli scavi per il tunnel…è crollato il pavimento del locale nuovo. E non sono l’unico a cui è successa una cosa del genere. Le vie della Città sono strette, le hai viste, il tunnel passa pelo pelo ai palazzi, e fanno questo buco per la galleria e se i palazzi sono antichi e non stanno attenti finiscono per danneggiare le fondamenta. Adesso siamo in contenzioso con la società. Ne hanno tanti di contenziosi per questi motivi. E noi stiamo ancora qui nel vicoletto, dove non passa nessuno, aspettando di ritornare sul Corso. In tanti, dopo il sisma, prendono psicofarmaci. Perché per tanti era qualcosa che si sapeva. C’erano state scosse anche nei giorni prima. Avevano pure chiuso le scuole, quindi si sapeva. E poi alle 23 e all’una. E non è stato fatto niente. Hanno solo aspettato che succedesse. Per fortuna è accaduto di notte. Se no i miei figli sarebbero stati a scuola, dov’è crollato tutto. Pensa alla Prefettura qui vicino: ci sarebbero stati dentro 450 persone, gli sarebbe crollato tutto il palazzo addosso. Anche io all’inizio non riuscivo a dormire e stavo male. Come fai a dormire? Poi passano gli anni e la ricostruzione va così. E tanti cadono in depressione e continuano a prendere farmaci. Io potevo andarmene ma non l’ho fatto. E sai cosa ti dico? Ora me ne pento.»
La questione della ricostruzione è delicata. I residenti, spesso, interrogati sul tema, assumono posizioni contrastanti. Per alcuni la ricostruzione è ancora molto lenta. Altri, invece, pensano che sia a buon punto, anche in considerazione del fatto che la maggior parte degli edifici (circa il 70 per cento) è vincolata dalla Soprintendenza.
I SILENZI DEI LUOGHI
Tra gli aquilani c’è chi se ne vuole andare e chi nonostante il suo amore per il centro storico non lo vive più. Poi ci sono ragazzi come Filippo. Filippo Zoccoli è un giovane collega; un bravissimo fotoreporter che mi ha accompagnato per gran parte del mio percorso tra L’Aquila e i paesi limitrofi.
All’epoca del sisma Filippo aveva solo 17 anni, compiuti da poco. «C’era stato lo sciame sismico e quindi mio nonno insisteva perché dormissimo nel salone invece che nelle camere da letto. Così eravamo più vicini alla porta. Alla fine mi misi io nel salone con lui a dormire sui divani. Quella notte fecero le prime scosse e nonno voleva andare a dormire in macchina. Lo convincemmo a restare nel salone. Poi venne la scossa delle 3:32. Cercai di alzarmi ma non riuscivo a stare in piedi, dalla finestra vedevo il palazzo di fronte che cadeva, non c’era più. Le librerie che cadevano e bloccavano la porta, le urla di mamma. Sono riuscito a sbloccare la porta, sono andato in camera dei miei a recuperarli. Siamo scappati per le scale che erano rimaste praticamente appese per miracolo e a ogni passo oscillavano. Usciti fuori era tutto pieno di polvere di calce e c’era una fortissima puzza di gas. Ricordo questa sensazione come se mi si fossero bloccati i polmoni. Se il sisma non fosse stato di notte sarei stato a scuola, all’Istituto D’Arte, all’ultimo banco, come al solito. E mi sarebbe crollato il muro addosso. I primi giorni dopo il terremoto li passammo in macchina. Poi arrivarono le tende, l’ospitalità di alcuni parenti di mia madre in Puglia e l’hotel. In hotel ci rimanemmo un anno, poi ci spostarono nei progetti C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili), prima di tornare finalmente a casa. A 17 anni, dopo il terremoto, odiavo la mia città, provavo rabbia. Poi ho capito che volevo di nuovo il mio luogo, il contesto dove sono cresciuto con i miei amici. Qui c’è pace nonostante i cantieri. A volte, però, vedo la staticità nell’aria, come se niente andasse avanti, e provo nostalgia per quello che non ho potuto avere. Mi mancano i negozietti locali caratteristici, la personalità della città, anche i vecchietti che giocano a carte davanti ai bar. L’Aquila post-sisma ha deciso che vuole essere una città per giovani, vuole cercare di essere innovativa. Ma non lo sa fare, non lo fa in maniera matura. Non è certo facendo aprire solo centri commerciali in periferia, e locali per la movida dove si beve in centro, che sei una città per giovani. Io faccio parte di una band rock con i miei amici e con tutti questi locali a perdita d’occhio lo sai che non ce n’è uno che faccia musica dal vivo? Io vorrei vita vera per la mia città. Ma allo stesso tempo la temo. Ho paura che mi rubi qualcosa. Mi sono reso conto di essere diventato dipendente dalla distruzione. Anche quando sono fuori, in altre città, cerco sempre scenari post-apocalittici. Ho bisogno di quella pace. Questo silenzio fa parte di me, mi è entrato dentro, mi aiuta a meditare su me stesso. Anche se dopo un po’ diventa troppo. Mi piace andare fuori, nelle grandi città, a Roma, ma tutti gli stimoli che raccolgo lì, ho poi bisogno di metabolizzarli qui, nei miei luoghi. Qui c’è calore, la mia intimità. È amore. Amo davvero la mia città. È facile amare quando tutto va bene, ma è nel momento di difficoltà che si vede l’amore. Ora tutto si è fatto più scuro e L’Aquila mi ha fatto male, ma io l’amo ancora. Ce l’ho a morte con le istituzioni, ma non do colpe a L’Aquila.»
I TESORI DE L’AQUILA
Un altro dei ragazzi che mi accompagna è Giorgio Serri. Giovane artista, allievo del grande pittore aquilano Marcello Mariani. Giorgio, nonostante la giovane età, è considerato un maestro e con lui il discorso non poteva non cominciare dall’arte.
«L’Aquila era ed è piena di arte e di tesori. Ma già nel primo mese post-sisma sono spariti milioni di euro tra beni privati e statali. Qui è pieno di collezionisti privati. Una persona che conosco aveva una collezione d’arte e dopo il terremoto non aveva fatto in tempo a recuperare tutti i beni che aveva in casa. Poi quando la ditta ha dovuto buttare giù l’immobile, perché classificato E, hanno distrutto tutto quanto, tra cui un’opera di Teofilo Patini (grande pittore italiano di metà Ottocento, ndr). Perciò anche da parte dello stato, le tempistiche, la regolamentazione per salvaguardare l’arte, è stata un po’ presa sottogamba. Un’opera, che era comunque bene culturale mondiale (stiamo parlando di Teofilo Patini che è esposto nei musei di tutto il mondo) è andato perso per sempre. Poi hanno fatto una prevenzione estrema contro lo sciacallaggio, mentre per noi cittadini recuperare le nostre cose è stata un’impresa folle. Quando le ditte hanno iniziato a fare i lavori con le impalcature – e le impalcature indirettamente per i ladri sono un biglietto potete entrare – a me sono entrati tre volte dentro casa. Alla terza volta sono andato a sporgere denuncia e il poliziotto di turno mi ha detto “eh, ma non è che noi possiamo metterci a fare le ronde notturne a controllare”. Io stesso, soli 5 giorni dopo il terremoto, ho visto un furgone che rubava un quadro di De Chirico. E questo è stato il grande aiuto datoci a livello di tutela e controllo anti-sciacallaggio da parte dello Stato. Ho amici a cui i ladri hanno lasciato le feci in mezzo alla stanza, per sfregio. Di questo i giornali non ne hanno parlato. Ormai non c’è più il decreto anti-sciacallaggio, tanto quello che potevano rubare hanno rubato e quello che hanno lasciato non ha un mercato nel mercato nero dell’arte. Poi la ricostruzione, per fortuna, nella maggior parte dei casi, non ha fatto danni da un punto di vista del patrimonio artistico. Anche se tante ditte di restauro sono fallite, perché lo Stato non ha rimborsato.»
UNA GRU
Continuo il mio viaggio con Giorgio. Mi porta nel paese della sua famiglia, Monticchio. Qui iniziamo a parlare della ricostruzione e dell’enorme differenza tra quella de L’Aquila e quella dei paesi.
«Dell’Aquila il 60 per cento l’hanno fatto, cioè per quanto al centro sia tutto disabitato però gli edifici li hanno restaurati. Devono finire di fare le grandi imprese, gli agglomerati edilizi. La questione è che per me la vera ricostruzione è un’altra, che ancora manca qua, quella sociale e quella commerciale. Che non esiste al centro. Io conosco gente che aveva le vecchie attività in centro, che magari ora sta nei centri commerciali in periferia, e che nella Città ci vorrebbe tornare, ma che non ci torna perché dice “se la gente non ci vive, chi ci viene apposta a comprare fino al centro se non c’è un’anima?”. Se io devo venire ogni mattina in macchina in centro, e L’Aquila la mattina è peggio di Roma perché non si trova parcheggio, perché i parcheggi sono occupati da tutti gli operai e da chi lavora nei cantieri, un vecchio che vuole venire al centro a comprare qualcosa, come ci arriva se gli autobus non ci sono? Tanti commercianti hanno fatto comitati, proteste al Comune. In molti, alla fine, dopo dieci anni, ci hanno rinunciato. Nel paese della mia famiglia, Monticchio, così come in tanti altri paesi, la situazione invece è diversa. Lì, forse, ci vorranno altri dieci anni prima di rivedere una vita normale. Lo Stato solo ora ha dato l’ok per i finanziamenti destinata alla ricostruzione. Perciò solo ora stanno iniziando i primi grandi lavori per ricostruire. Ora hanno stanziato i fondi alle ditte. Hai visto la gru? Quella è la prima gru dopo dieci anni. Una. Calcola che metà del paese sarebbe vincolata. E molte cose antiche si riscoprono solo ora. Anche la stalla con il soffitto a botte che hai visto è del 1800. Ma i vecchi dei paesi cercano di nasconderle queste cose, di non far vincolare niente, per i tempi di ricostruzione. Ormai si sono scocciati, vogliono tornare nel loro paese, sono anziani. Non possono aspettare oltre. Sono passati dieci anni. Purtroppo hanno iniziato solo adesso. Prima era tutto bloccato perché veniva prima la città de L’Aquila o i beni primari, tipo le chiese. Che poi di questa cosa c’è da parlarne. Una cosa che ci fece arrabbiare molto nel primo post-sisma è che ricostruivano le chiese e non le case. Ora con tutta la buona volontà, che ce ne facciamo delle chiese? Ridateci le case. Per quanto ami l’arte e ci siano delle chiese splendide, non è che la chiesa mi da il tetto quando piove. Quante persone sono state sfollate per anni e la ricostruzione della casa ancora non parte, mentre la chiesa del paese è tutta finita. Lo abbiamo visto insieme a Onna, ancora tutto devastato ma con la chiesa tutta bella finita. Ora, sinceramente, che ci fai con quella chiesa? Che da un lato è tutto distrutto e puntellato e dall’altro è ancora tutto disabitato. Che ci fai? Non c’è stato un criterio logistico di ricostruzione, ma c’è chi, illuso, ha creduto alla pubblicità mediatica della grande ricostruzione. Io nei miracoli non ci credo. Ora, nel mio cuore, per quello che mi sento, vorrei tanto rimanere a L’Aquila. Ma ci è stato negato il futuro qui, a L’Aquila. Inizio a sentire che devo andarmene, come hanno fatto tanti miei coetanei.»
FARINA 0
C’è chi poi la ricostruzione se l’è «dovuta fare da solo», come Antonio, pizzaiolo storico di San Demetrio.
«Io il locale l’avevo ristrutturato otto mesi prima del terremoto. Puoi immaginare come stavo. Dopo la scossa mia moglie e mio figlio li ho mandati a Roma. Io invece sono rimasto. Stavo in macchina, il paese era militarizzato, non mi facevano passare. Ma appena i militari si distraevano io entravo di nascosto. Non hai idea che paura per le scosse. Ci siamo poi trasferiti in un appartamento con l’affitto concordato. Come commerciante mi hanno dato 800 euro per tre mesi e hanno sospeso il pagamento dei contributi che non ho pagato per diciotto mesi. Ma questo è stato tutto l’aiuto che ho avuto. E io, commerciante, senza il locale, come avrei dovuto fare per andare avanti? Allora ho venduto diversi terreni di proprietà e, essendo geometra, ho presentato un progetto mio per la ricostruzione della casa e del locale. Nel 2014 avevo riaperto, ma sono dovuto ripartire completamente da zero. L’attività ancora oggi non va più come una volta. Un po’ perché siamo in una cantina e dopo il terremoto la gente ha paura a scendere qui, ma molto perché tra progetti C.A.S.E. e M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori) molti dei miei clienti storici sono sparsi ai quattro angoli della provincia. In paese, solo nell’ultimo anno, hanno chiuso ben otto attività, tra cui alcune storiche. Di noi commercianti non se ne interessano. Intanto ci sono coppie che si sposano solo per avere un M.A.P., non pagano l’IMU e non presentano progetti per la ricostruzione. Stranieri che hanno fatto venire i parenti da fuori per potersi far assegnare un M.A.P. Dopo il terremoto io avrei voluto andarmene, ma come facevo, le mie proprietà le avevo qui, ma se me ne fossi andato, avrei indovinato al 100 per cento. Prima stavo bene, ora ho dovuto vendere tutto per campare e andare avanti con il locale. L’ultimo terreno l’ho venduto l’anno scorso. Penso di essere lì lì per chiudere anch’io. La vedo nera. Sono passati dieci anni. Ma sono volati.»
Mentre parliamo con Antonio, in pizzeria c’è un altro ragazzo. Si avvicina e ci spiega che in tanti sono stati lasciati soli ad affrontare la farraginosità e i tempi della burocrazia italiana.
«Io e la mia famiglia avevamo la seconda casa, quindi eravamo fuori dalla tendopoli, progetti C.A.S.E., M.A.P., insomma nessuna assistenza di nessun genere. Se non fosse che la seconda casa aveva subìto comunque dei danni, quindi dovevamo rimanere in attesa dell’agibilità. Così siamo dovuti andare a Roma con mia madre che, essendo dipendente pubblica a L’Aquila, è stata richiamata a lavorare due giorni dopo il sisma. Due giorni dopo. Mentre abitavamo a Roma. Lei doveva fare avanti e indietro. E in tutto questo il Comune ci ha dato circa 700 € più o meno per un anno. Che per far vivere una famiglia a Roma, con una madre che deve fare avanti e indietro da l’Aquila, sono niente. Alla fine sono rientrato nella mia seconda casa, che comunque era quella meno danneggiata. Subito dopo i lavori, quando era ancora classificata con agibilità B, ovvero in attesa dell’abitabilità. Ma che altro potevo fare? Ormai erano passati tre anni.»
QUARANTOTTO METRI QUADRATI PIÙ BALCONE
Ai più fortunati, invece, hanno assegnato un appartamento nei progetti C.A.S.E. Quei bei palazzoni che molti di voi ricorderanno nei tanti servizi andati in onda all’epoca e tanto pubblicizzati dal Governo Berlusconi. Con Filippo ci rechiamo a Bazzano, uno dei progetti C.A.S.E. a cinque chilometri da L’Aquila. Qui il clima di sospensione si sente più forte che mai. Anche più che tra le macerie dei vicoli. In giro non c’è quasi nessuno. I pullman che arrivano sono pochissimi. Non ci sono negozi, alimentari, bar, pizzerie. Niente di niente per almeno un paio di chilometri. Al centro del complesso, solitaria, una tenda funge da punto di ritrovo sociale e da chiesa. Dentro troviamo la signora Mariantonietta con la quale riusciamo a scambiare qualche battuta.
«Ancora interviste? Sono dieci anni che ci fanno interviste. Noi, tanto, tra poco ce ne andiamo, ci ridanno la casa, stiamo aspettando. Io prima abitavo proprio in Città, vicino Santa Maria Paganica, la chiesa, l’avete vista? E quant’era bella prima. Obama aveva promesso che ce la faceva rifare. Invece niente. Le chiese che hanno promesso i francesi, e pure la tedesca, la Merkel, quelle le hanno rifatte. Invece la mia che ci aveva promesso Obama no.»
Parlo con Filippo che ha vissuto qui per diverso tempo. «Lo hai visto anche tu. Qui è tutto fermo. Anche la vita sociale. Io mi ricordo che qui era difficile farsi amici, non è che la gente scendeva e chiacchierava con i vicini. Qui si attende. Di tornare fuori, a casa, alla normalità.»
E infatti anche i pensieri della signora Mariantonietta sono orientati a quello. Alla fine dell’attesa, al ritorno, alla sua chiesa che non troverà restaurata, a fuori. Allontanandoci da L’Aquila, a Camarda, incontriamo Alfonso, “Il Professore”, chiamato così per la sua cultura enciclopedica. Alfonso era un Alpino, e le montagne qui le conosce come le sue tasche e le chiama per nome. Quando sbagliamo ad orientarci indicando i monti, con santa pazienza tira fuori una cartina per cercare di spiegarci (ahimé, inutilmente) e farci orientare. Il professore viveva a L’Aquila e il terremoto lo aspettava. «Quando è iniziato lo sciame sismico ho mandato mia moglie e mio figlio a Ostia. Del resto, diamine, avevano chiuse le scuole i giorni prima. Scuole chiuse per terremoto. Anche io quella sera ero andato a dormire vestito. Mi ero tolto solo le scarpe. Dopo il terremoto mi hanno messo nel progetto C.A.S.E.. Avendo una moglie e un figlio di dieci anni avevo diritto a ben 48 metri quadri di appartamento. Nell’Urss del resto ne davano di meno, di che ci lamentiamo. Una camera matrimoniale, un bagno, e una camera da pranzo con angolo cucina. Secondo loro mio figlio, essendo piccolo, poteva dormire sul divano. Ora sto rimpacchettando tutto per tornare a casa a L’Aquila. Sono stato tre anni qui a Camarda, e prima che mi evacuassero sono stato sette anni a Collebrincioni.»
Dal progetto C.A.S.E. di Collebrincioni il professore è stato praticamente evacuato. Per via di balconi non a norma. Pare che in progetti analoghi a quello di Collebrincioni, eseguiti dalla medesima ditta in altre zone, i balconi sono inesorabilmente crollati. Situazioni che si sono ripetute in maniera quasi analoga, con trasferimenti per via di problemi strutturali, in diversi complessi dei progetti C.A.S.E..
A Collebrincioni troviamo tutto deserto e abbandonato, con vari balconi scrostati o puntellati e che a prima vista sembrerebbero inclinati. Mentre giriamo per il complesso troviamo una porta aperta. All’interno un appartamento, evidentemente per una famiglia più numerosa, o con figli più grandi rispetto a quello di Alfonso. Ma la cosa che stupisce è lo stato della casa. Nell’appartamento sono ancora presenti tutti gli elettrodomestici, frigo, forno, lavapiatti, perfino un televisore. E poi stoviglie, piatti, caffettiere, poltrone, divani. Perfino i letti, ancora fatti, con tanto di cuscini e lenzuola. Un appartamento ancora pieno di mobilio e suppellettili praticamente nuovi. Abbandonato. Condannato a marcire. Così probabilmente da tre anni. Uno spreco. Ci chiediamo allora se l’instabilità dei balconi renda così pericolosi anche gli interni degli appartamenti, tanto da impossibilitare il recupero di questi oggetti. Così come ci chiediamo se ci fosse davvero bisogno di far abbandonare gli stabili o se invece era possibile semplicemente cambiare o ristrutturare i balconi.
LA PRIMA VOLTA AL CASTELLO
Il professore ci porta anche a Paganica, a visitare una casa della sua famiglia. Paganica dal 1927 è una frazione de L’Aquila, ma negli anni, numerosi sono stati i tentativi di ritornare un Comune autonomo. Per questo molti lo considerano un paese a sé. Qui incontriamo Federico, un amico di Filippo, che ci racconta la sua storia.
«Il primo ricordo che mi viene in mente è che quando ci fu la scossa i vicini urlavano di non far scendere i bambini, di non farci uscire. Non volevano farci vedere un bambino che era morto, appena fuori la porta, colpito da una tegola. I miei genitori a quei tempi erano iperprotettivi. Non mi facevano uscire spesso, ma con il sisma, il caos, la tendopoli, finalmente iniziai ad avere la mia libertà. Sembrerà brutto da dire, ma ho iniziato a vivere dopo il sisma. Nella tendopoli ho preso la mia prima sbronza insieme a un gruppo di alpini. Poi, dopo la tenda, siamo stati a Roma, e lì me ne sono innamorato. Infatti ora il mio obiettivo è andarmene da L’Aquila, trasferirmi a Roma. Alla fine comunque siamo tornati a casa, a Paganica, anche se non potevamo starci. Lo stabile non aveva subito danni, ma ancora non avevano dato l’agibilità. Ogni tanto veniva la polizia e ci scambiava per sciacalli. Mio fratello ci mise un anno prima di riuscire a rientrare a casa. Aveva paura delle scosse. Per me era diverso. Le scosse a casa tua sono diverse. Tornato a Paganica, dopo Roma, la cosa che mi dava più fastidio è che in paese non c’era niente. Né un bar, un tabacchi, niente. E allora io e i miei amici ci intrufolavamo negli edifici abbandonati per fare skate. Appena trovavamo un posto con un piano liscio. Prima del terremoto andavamo in un vecchio cantiere abbandonato, ma dopo il sisma la Protezione Civile lì ci fece un deposito. Quello che più di tutto mi fa rabbia è che il terremoto mi ha portato via la scuola, l’istituto d’arte. Il terremoto da un certo punto di vista ci ha fatto bene, ma ci ha anche incattivito un sacco, ora è difficile tornare alla vecchia routine per noi che abbiamo avuto il nostro periodo ribelle amplificato. Per me la routine è diventata il terremoto. Ero diventato “furestico” come si dice.»
Iniziamo così a passeggiare per le strade del centro storico abbandonato mentre Federico ci racconta del paese pre-sisma.
«Vedi qui c’era il bar dove s’incontravano tutti. Anche quando era chiuso. Ci si incontrava qua davanti, sempre. Poi da qui si andava.» Federico si guarda intorno, si blocca un attimo: «Ma qui hanno pulito? Quindi si può salire al castello? Ma ti spiace se vado a prendere mio figlio? Non ce l’ho mai portato.»
Incontro allora il piccolo Fabrizio, di 6 anni, entusiasta di essere testimone della sua prima visita al centro storico del paese.
«Ancora le case distrutte? Che schifo. Ma qui non ci sta niente. Tu come giocavi qui che non c’è neanche il parco giochi?»
«Eh a papò si giocava qui, nei vicoli, a pallone, a nascondino…Ecco, un’altra cosa che mi manca, che prima si poteva giocare nei vicoli, c’erano sempre dei bambini che giocavano nei vicoli. Lo sai Fabri che quando papà era un po’ più grande di te ci passava le giornate a giocare?»
«Ma che è successo dentro sta casa?»
«Eh papà pure qua che è successo, è successo il terremoto.»
«Si ma il terremoto come ha fatto a distruggere così? Sono crollate tutte le pietre.»
Gli chiedo allora se a scuola abbiano spiegato cos’è il terremoto, cos’è accaduto dieci anni fa.
«No, a scuola no, però io lo so. Ma qui è successo davvero? È tutto distrutto. È disordinato.»
Fabrizio le case terremotate le ha sempre viste da lontano e tra i vicoli del suo paese non c’era mai stato. Tutta quella distruzione, per un bambino di 6 anni, non può avere senso. Arriviamo a quello che chiamano il castello, che in realtà scopro essere una cattedrale. Federico mi racconta che qui ci veniva spesso, a nascondersi per fumare, e dicendo questo da uno scappellotto affettuoso al figlio, intimandogli di non fumare mai.
«Mi piaceva un sacco venire al castello. Prima del terremoto qui facevano una grande festa. E penso che quella festa sia stata l’ultima volta che sono salito qui prima del terremoto…Ma non riesco più a ricordarmi il nome.»
Nel mentre anche il piccolo Fabrizio, come suo padre e tutti i bambini del paese prima di lui, inizia a correre per la piazza. E impara, per la prima volta, cosa vuol dire giocare nei vicoli del vecchio paese.
ZONA ROSSA? ZONA NOSTRA!
Se il piccolo Fabrizio fa parte della generazione post-terremoto e le rovine del vecchio paese non l’aveva mai viste, c’è chi invece in mezzo alla zona rossa c’è cresciuto. La chiamano “Generazione Terremotata”. Sono quei ragazzi che all’epoca del sisma avevano circa dieci anni.
Un messaggio sul cellulare di Filippo – “A che ora smacchiamo?” – ci avvisa che sono pronti ad incontrarci. Ci troviamo all’inizio della zona rossa di Poggio Picenze con “Giordano”, “Simest”, “Nole” e “Menzo”, che sono i loro soprannomi, i loro “tag”. Hanno tra i 17 e i 20 anni e usano uno slang tutto loro, in parte proveniente dalla cultura dell’Hip Hop, dalla “street”, dalla strada. Nonostante l’aspetto giovane sono ragazzi svegli, furbi, abituati a cavarsela. Mi accompagnano per la zona rossa del paese. Lungo la strada i loro graffiti, le loro firme, con cui hanno reclamato quegli spazi, ne hanno fatto dei luoghi. “Zona Nostra”! Come dice una delle loro scritte. Mi portano a vedere le case e i luoghi dove si esercitano con il rap, il beatboxing, la breakdance, le bombolette. Dove s’incontrano, passano il loro tempo. Hanno perfino una zona dove si sono creati un salottino, delle panche e dei tavoli fatti con pezzi di legno presi in giro. Qualcuno però gliel’ha distrutto. Fa niente, quest’estate lo ricostruiranno uguale. Per fortuna nessuno si è preso le birre che avevano nascosto. Questi vicoli li hanno cresciuti. Qui sono loro i padroni. In dieci anni, qui, i vicoli non sono cambiati. Mi spiegano che la ricostruzione non è ancora iniziata e solo ora comincia a muoversi qualcosa. Nonostante siano passati dieci anni da quella sera. Una sera che loro, nonostante fossero poco più che bambini, ricordano bene.
«Quando ci siamo radunati qui in piazza nessuno si rendeva conto di che era successo. Nessuno si rendeva conto di quanto fosse stata grande la scossa e l’evento. La gente che si è recata in zona rossa a salvare le persone, a scavare a mani nude, o con mezzi di fortuna. Tutto questo in piena notte. Noi avevamo 10 anni a malapena, lui ne aveva 8. Per un bambino è stato surreale vivere una cosa del genere.»
«Io mi ricordo ancora nonna, quando stavamo in macchina dopo il terremoto, e tipo stava continuando a fare scosse a manetta, mi fa “Ma la smetti di muovere la macchina?”, e io “A no’ ma che cazzo stai a dì?”»
«Io la prima cosa di cui mi so preoccupato mi ricordo che ho chiesto: “Papà ma lunedì dobbiamo anda’ a scuola?” Cioè proprio non c’eravamo resi conto di quello che era successo. Poi il giorno dopo vedi tutto il pandemonio e ti rendo conto effettivamente.»
«E la scuola nostra, sul banco mio e suo, è caduto su un pezzo di tetto, il banco sta a metà. Ma manco dopo veramente ci siamo resi conto. Cioè pure la tendopoli. Era più un divertimento. È brutto da dire, però…»
«Io c’avevo la tenda A1, me lo ricordo ancora.»
Si alza un vento strano. Simest dice che sta arrivando il terremoto, che quel vento così glielo ricorda. Forse un po’ scherza, forse un po’ la suggestione dei ricordi che ritornano.
«Dopo il terremoto era così. C’era un polverone, era tutto pieno di sabbia. E si era alzato un vento fortissimo. E ci stava una luna viola! Io mi ero svegliato e non mi ero reso conto subito del terremoto. Poi mi stavano cascando gli armadi addosso, vedevo il lampadario oscillare tantissimo, la porta bloccata. Quando alla fine uscì fuori mi ricordo ci stava un polverone della madoschia, tutte le luci spente, e ci stava questa luna viola. Non so se c’era l’eclissi o era filtrata dalla polvere che c’era quel colore proprio viola, ma era stranissimo.»
«Pure il giorno dopo il tempo era strano. La mattina dopo mi ricordo che pioveva a pressione. E il primo che è arrivato è stato un chiosco dei panini, che si è messo a regalare i panini. Poi è arrivata la protezione civile»
«Sembra strano ma proprio all’inizio tutto il campo della tendopoli è stato organizzato da Casapound. E andavano a mena’ quelli che andavano a ruba’ dopo il terremoto, gli sciacalli.»
«No no, quelli all’inizio erano quelli della regione Piemonte. Casapound fece il campo dopo, dall’altra parte della scuola. Poi arrivarono quelli della Campania e poi quelli del Lazio.»
«E quelli della Campania stavano tutti fuori. Cioè portavano roba, poi se la rubavano, poi si scopavano le ragazze di qua, dopo facevano i casini. Andavano a rubare pure loro.»
«Pure quando portarono le Vans. Cioè qua comunque ci sta gente che ancora c’ha le Vans, quelle modello vecchio, senza lacci, piatte. Di quelle ne portarono a stecche. E quello proprio qui c’era la tenda col magazzino.»
«A vederlo adesso il campo sembra troppo piccolo. A 10 anni qua sembrava sconfinato, c’era tutto il paese, un sacco di tende.»
«T’immagini a godertela mo’ un’esperienza così? Sai come te la godi. Godertela tra virgolette eh.»
«Da quello che ci raccontano quelli più grossi, quelli che al terremoto c’avevano 18 anni, se la son goduta nelle tende. Cioè tipo un campeggio con tutti gli amici, andavano in giro la notte. Cioè è stata più un gioco anche per loro. Te la vivi diversamente. In questo senso tra virgolette.»
«Noi fondamentalmente ci sarebbe piaciuto goderci L’Aquila prima del terremoto. Per noi è una realtà parallela questa. Non è una realtà vera. Per noi questa è la realtà ma non è la realtà che si dovrebbe vivere un diciottenne.»
«Cioè a L’Aquila è come qua. Ci viviamo la zona rossa.»
«Chi lo sa chi è stato il primo ad andare a prendersi i vicoli, com’è nata. Di sicuro quelli più grandi di noi. Prima anche qui in paese eravamo tre gruppi. Quelli che adesso hanno più di 25 anni, quelli sui venti, e noi che eravamo i più piccoli. Ora invece siamo tutto un gruppo, usciamo tutti assieme. Noi in zona rossa ci siamo arrivati a 13 anni. Quindi tre anni dopo. Per curiosità un po’. Poi t’inizi a fumare i primi “stonfetti”, le prime sigarette, a farti le prime “tazze”. E cerchi un luogo un po’ più appartato…»
Mi spiegano che gli stonfetti sono le canne, la marijuana, e le tazze sono l’alcool, le birre. Azzardo un’etimologia per stonfetti, stoner, fattone in inglese, più confetti. Mi guardano. Ridono. Mi spiegano che loro le parole se le inventano così. Non hanno un’etimologia.
«Un giorno semplicemente abbiamo iniziato a chiamarli stonfetti. Un altro nome che usiamo per le canne è Predappio. Dov’è morto Mussolini. Oppure Speis che hai visto scritto in giro, quello prima si usava per dire “Raga”.»
Dopo queste opportune precisazioni, che mi fanno pesare altamente la mia età, i ragazzi continuano la loro storia.
«Poi in zona rossa certe cose incredibili. Ora hanno pulito ma prima vedevi l’erba alta tre metri. Noi non è che la zona rossa ce la siamo ripresa, ce la siamo proprio presa e basta, non ripresa. Anche se ci sono ancora zone inaccessibili. Noi per esempio prima avevamo l’oratorio nel paese, è ovvio che se ci levi i posti come l’oratorio dove andare a “stazzà” (rilassarsi, ndr) allora do te ne vai? Devi per forza anda’ nelle case in zona rossa. Pure d’inverno quando fa freddo che fai stai solo a casa? L’essere umano è fatto pe stare in compagnia, e allora ce ne andiamo per le case. Se no che fai? Mica ti puoi fa sempre gli stonfetti e le birre no? Quindi vai in zona rossa. Alla fine o fai quello o fai quello. Non c’è un’altra scelta. Quindi non è che poi se la possono prendere, perché tu sei in qualche modo costretto a sta in zona rossa. Poi c’è anche il gusto della trasgressione, della scoperta.»
«Digli della zona, cioè c’è una zona della zona rossa che per la prima volta dopo il terremoto abbiamo visto l’anno scorso io e lui. Cioè per nove anni non abbiamo mai scoperto questa zona. L’anno scorso siamo andati la e abbiamo detto “cavolo ma qua io da piccolo ci passavo”. E tu chiudendo gli occhi t’immagini la casa che sta la, li riapri e la casa non c’è più. E ti fa strano. Dopo 9 anni ancora scopri posti che da piccolo vivevi.»
«A volte la vita di prima, che abbiamo avuto fino ai 10 anni, sembra un sogno. Una vita che non è mai esistita fondamentalmente. Il terremoto, tutto quello che hai visto fino ad ora, è parte integrante di noi.»
«Qui sono passati 10 anni, sono cambiato io, ma la zona rossa è rimasta sempre uguale. Quella di adesso è bene o male la stessa di quando io avevo 15 anni. Ora sta iniziando la ricostruzione, e noi aspettiamo con ansia di vedere come sarà il paese nuovo. Perché tu a venti anni sei nel pieno della giovinezza, vorresti fare mille cose, ed è limitante. Però bisogna dire che nonostante tutto abbiamo cercato di non farci mancare niente. Poi è vero, con la ricostruzione ci tolgono la zona nostra magari, ci tolgono un pezzettino di cuore. Ma voglio anche rivedere il paese.»
«Ma tanto anche se ricostruiscono la zona rossa noi comunque un altro posto lo troviamo. Ce lo inventiamo. Per forza. Se no che fai. Noi ci conosciamo tutti da quando siamo nati, siamo tutti o amici o parenti. E poi c’è l’Hip Hop, che è il nostro modo d’esprimersi, è una cultura che vivi.»
«Per noi l’Hip Hop è lo strumento più facile per farci sentire. Se vuoi dimostrare qualcosa il mezzo più semplice è mettere insieme due rime. Per quanto ami il Rock, il Blues, e questi generi qua, non penso si possano usare per esprimere quello che abbiamo passato. Per questo sono nate un sacco di crew dopo il terremoto che hanno descritto la città. C’è n’è una che si chiama proprio Zona Rossa Crew.»
«Tutti i ragazzi che conosciamo della nostra età, anche a L’Aquila, so come noi. Chi fa freestyle, chi scrive, chi fa beatbox. Cioè i ragazzi sono stati i primi ad andare nelle zone rosse per ripopolarle. Un vecchietto sta alla casa, al giardino, o al bar. Siamo noi che c’abbiamo bisogno degli spazi alla fine.»
«Noi ci siamo cresciuti là. È diventato nostro, noi l’abbiamo scoperto quello spazio, l’abbiamo conquistato, l’abbiamo vissuto. Quindi la zona rossa è diventata nostra.»
«Anche se a 10 anni non me lo sarei mai sognato di andare in zona rossa, non era quello che volevo. Cercavo protezione penso, una cosa del genere.»
«Io credo che comunque, a livello di noi generazione che ci siamo vissuti questa situazione qua, trovalo un altro posto in Italia che c’abbia sta cosa …»
«Un ragazzo di 19 anni che abita a Milano ad esempio s’è vissuto una vita normale. Non c’ha l’esperienza che c’abbiamo noi. Penso che avrà fatto neanche la metà delle cose che abbiamo fatto noi o che abbiamo visto noi. Ormai ci sappiamo arrangiare. Noi l’estate scorsa, 17/18 anni, siamo partiti da soli per questo festival, zaini in spalla, senza un soldo, ci siamo arrangiati. Abbiamo scroccato, siamo andati a dormire alle stazioni, abbiamo rubato. È stata davvero una bella avventura. Poi tipo due anni fa abbiamo organizzato noi un evento di due giorni, tipo festival, da zero. Da soli, noi e altri ragazzi amici nostri. Su un gruppo di 15 persone c’erano si e no 5 maggiorenni. E abbiamo organizzato questa cosa con tornei sportivi, concerti, ha suonato lui con la loopstation, chi ha fatto beatbox, abbiamo chiamato dei ragazzi de L’Aquila che hanno rappato. Bella roba.»
«Poi a chi ci dice che siamo disagiati, che facciamo parte della “malamovida aquilana”, a loro semplicemente gli direi: Vaffanculo! Se tu per disagio e malamovida intendi che vai in centro e ti fai le tazze o gli stonfetti… poi ci stanno pure quelli che bevono e magari spaccano i bicchieri, ma dipende da come te la vivi. Ma alla fine esci in centro a L’Aquila e che fai, che ci sta? Devi bere per forza, c’è solo quello.»
«Se la malamovida è fare casino allora noi siamo i protagonisti della malamovida. Eccoci. Quando c’è da fare casino noi siamo i primi. Ma poi dipende pure da come lo fai casino. Non è che tu prendi esci ti fai una birra e lanci la bottiglia, spacchi vetri. Noi casino lo facciamo in modo consapevole e sappiamo bene quando fermarci.»
«Poi qua talmente tanto che ti abitui con la zona nostra, che fa parte di noi, che a me è capitato in vacanza, ad Acquaviva di Montepulciano; e lì il paese era normalissimo, coi vicoletti, e andai a pisciare in un vicolo. Solo che lì ci abitano, e quindi uscì la gente a urlarci. Perché è anche l’abitudine, qui i vicoli so diroccati, non è bello da dire, ma è comodo.»
«Una cosa che voglio dire è che noi soprattutto a livello scolastico ce la siamo vissuta male. La mia scuola non ha un laboratorio, non ha un cazzo, solo un corridoio e le aule. Non hanno dato i fondi per rifà un cazzo. È una merda. Non gli è n’è fregato proprio niente. Lui è 6 anni che sta al classico ha cambiato 4 sedi»
«Alla fine però abbiamo vissuto metà della vita senza e metà della vita con il terremoto. Ma in 10 anni abbiamo fatto un casino di roba. Ma ci pensiamo spesso a come sarebbe andata se non ci fosse stato il terremoto. Ci pensiamo veramente spesso. Ci immaginiamo anche le persone che sono morte come sarebbero potute essere, cioè amici nostri, bambini che oggi avrebbero un anno più di noi. Che magari adesso sarebbero potuti stare al bar a farsi gli stonfetti con gli altri. So scenari possibili che però vivono solo dentro le nostre teste.»
«Qualcosa comunque ce l’hanno rubato con il terremoto. Senza saremmo tutti diversi. Però comunque il terremoto nel bene e nel male ci ha dato qualcosa in più che ci caratterizza adesso, siamo skillati, abbiamo una tempra, una stamina che altri non hanno. Ma ad ogni modo comunque noi siamo radicati qua nel paese nonostante tutto. C’è gente che dice “ah sogno la vita in città, voglio dimenticare il paesino.” Noi no. Io anche tra quarant’anni, se mai dovessi diventare famoso voglio che nella mia biografia…» “Non preoccuparti che tanto sei scarso”, lo prendono in giro gli altri ragazzi, «…eh lo so… Ma voglio che venga scritto che sono di Poggio Picenze, guai a chi scrive che sono de L’Aquila. Io sono legato a questo paese nonostante tutto…»
«Noi pure con le ragazze, se dobbiamo portarle da qualche parte diciamo vieni a Poggio. Poi qui è più facile, perché giochi in casa, soprattutto nella zona rossa che torna utile in quel caso.»
«Io comunque dico pure a tutti quei ragazzi che vanno in giro per l’Italia, fanno “ah io spaccio, io qua”, vogliono fare i fregni… Tu non hai capito niente. Questa è la realtà. Questo vuol dire essere street, questa è la street credibility, non la roba che sognano gli altri.»
STERPONE
Con Giorgio lasciamo gli ambienti “street” e ci rechiamo nel Parco del Gran Sasso, dove incontriamo il pastore Angelo Spagnuoli, detto “Sterpone”, per via della sua selvaticità e ruvidezza. Al paese ci raccontano che una settimana prima aveva avuto un ictus, ma che già dopo soli 3 giorni, nonostante i suoi 89 anni, era tornato in montagna a saltellare dietro le sue bestie. E, infatti, noi è così che lo troviamo. Alcuni in paese ipotizzano un miracolo di Papa Giovanni Paolo II, che nei suoi viaggi in Abruzzo, Sterpone l’ha conosciuto e benedetto. Su al pascolo c’è perfino una croce con una targa a commemorare l’evento dell’incontro dei “due pastori”.
«Però non credete alle bugie che vi dicono. Qui dicono che il Papa è entrato nella chiesetta qui sopra, ora la vogliono dedicare a lui. Ma la verità è che lì il Papa non ci è mai entrato. Scrivetelo sul giornale, e dite pure che ve l’ho detto io.»
A Sterpone, che vive quassù lontano dai paesi, il terremoto non ha fatto tanta differenza. Per lui i problemi sono altri.
«Il problema è che mi pagano 20 centesimi il kilo di lana. Una pecora da circa due chili di lana, poi si prendono due euro per tosarla, e vedete voi. Il formaggio chiedo 9/8 euro al chilo, me lo vogliono pagare non più di 5 euro. E così pure per gli agnelli e i vitelli, abbassano sempre di più i prezzi. Vedi in Sardegna che si sono ribellati, hanno fatto la protesta. Ma qua, qua proteggono i lupi e i cinghiali, dicono che sono natura. Ma perché non sono anche io natura? Prima qua eravamo 30 pastori, ora qui sopra io sono rimasto l’unico. Più sotto ci sono i Macedoni, ma quelli affittano le terre al comune per i contributi e manco le portano le bestie. A me invece vogliono farle tenere dentro dal 15 ottobre al 15 giugno, perché dicono che se no si rovina il manto erboso. Ma pensassero a sistemare i pascoli piuttosto. E se qualcuno dell’ente parco vuol venire qua a fare un contraddittorio digli pure che sono pronto a sfidarli! I lupi si mangiano le pecore, pochi giorni fa hanno mangiato pure due vitelli, ho ritrovato solo il teschio, e l’ente parco nel tempo che ci mette per rimborsarti un danno, ne subisci altri 20. Pure il Cai, è solo propaganda, tutti i sentieri vecchi sono abbandonati. Qui il terremoto non mi ha fatto niente, non mi ha cambiato niente. Ma è l’ente parco che fa tutto per farci scomparire, nonostante ho l’azienda e la residenza qua. Prima qui ci abitavo, nella capanna, per guardare le bestie, ora da qualche tempo mia moglie insiste per farmi scendere in paese la notte.»
La questione dei pastori contro i parchi è sempre la stessa. Ma questa volta, se posso spezzare mezza lancia in favore dei pastori, non fa anche Sterpone parte di quel patrimonio che andrebbe preservato? Tanto più in una zona come questa dove la tradizione della pastorizia è parte integrante della storia e del folklore locale? Sterpone qui non sta sparendo per il terremoto, non saranno il sisma e le sue conseguenze a cancellarlo. Non sarà la ricostruzione lenta. Ne l’ente parco o i lupi o i cinghiali. Neanche la vecchiaia sembra scalfirlo più di tanto. Ma a cancellare quest’uomo dal viso e dal carattere ruvido, cresciuto alla luce delle grandi montagne, con mille storie da raccontare. A Sterpone, lo cancellerà l’indifferenza.
I RESISTENTI DI SAN GREGORIO
Riscendendo a valle, verso L’Aquila, ci fermiamo alla frazione di San Gregorio. Qui da dopo il terremoto è in atto un braccio di ferro tra gli abitanti del Progetto Pilota di Edilizia Popolare e il comune. Nonostante le case classificate A, nonostante il fatto che le tamponature esterne delle crepe e la manutenzione generale sia stata a carico degli abitanti (mentre sarebbe dovuta essere a carico del comune essendo case popolari), qualcuno sembra voler sgombrare la zona a ogni costo. Ne parliamo con l’architetto Antonio Perrotti che da anni si batte insieme agli abitanti del quartiere.
«Subito dopo il terremoto fecero i M.A.P. a San Gregorio, e subito lì qualcuno inizio a dire che non voleva gli abitanti delle case popolari, li esclusero. E per di più gli fecero un’ordinanza d’immediato rientro nelle abitazioni dopo 30/40 giorni dal sisma visto che le case stavano bene ed erano agibili. E sono rientrati tutti, a meno di quelli che stavano nei blocchi costruiti sui pilotis (pilastrini esterni, ndr), che aveva subito danni, e a cui è stato assegnato il piano C.A.S.E. e i M.A.P. Ma le altre 22 famiglie, ora sono 17, sono state costrette a rientrare e si sono fatte i lavori da soli. I danni sono stati classificati come lievi e non è intervenuto il comune, nonostante quella sia proprietà comunale. E allora i lavori se li sono fatti gli abitanti. Hanno intonacato, hanno messo le reti, hanno riverniciato le case, alcuni hanno rifatto anche pavimenti e impianti, e insomma le hanno rinnovate tutte le case, le hanno risistemate. E ci sono stati per anni. Poi, improvvisamente, tre anni fa, si vede questa ordinanza di sgombro, per non meglio identificati motivi di sicurezza, paura per crolli, incolumità. Nonché dicevano per motivi igienici. Io ai tempi coordinavo i resistenti per la mancata ricostruzione degli E.R.P. (Edilizia Residenziale Pubblica). In questo cratere le case popolari non sono state ricostruite perché dicono “tanto i poveracci li teniamo al piano C.A.S.E., c’abbiamo questi 3.400 alloggi sparsi per le campagne, adesso ci lasciamo quelli delle ex case popolari”. Di quartieri popolari ce ne sono anche di più baricentrici, di interni a L’Aquila, e qui vogliono fare i grandi progetti di riqualificazione, quelli che chiamano Masterplan, e la gente non ce la vogliono riportare più, questa è la scelta politico-sociale, di emarginazione. Che poi, facendo tutto alla carlona, in alcune zone non si sono neanche accorti che gli abitanti avevano completamente riscattato le case, perché avevano fatto i progetti di riqualifica ma gli abitanti non li avevano neanche consultati. E con l’ordinanza di sgombero a San Gregorio abbiamo scoperto che anche lì c’era questo Masterplan con un finanziamento di tredici milioni di euro per il recupero. Poi è spuntata questa relazione dell’ ingegner Luongo che descriveva San Gregorio come caso di disagio socioeconomico, con case semi dirute, condizioni igieniche precarie. Io analizzo la scheda e contesto tutto all’ingegnere. Qui le case stanno bene, ci abitano, e la parte che doveva essere demolita, che era classificata E, quella sui pilotis, l’hanno infatti demolita poco tempo fa. La parte di sotto. Perché all’inizio volevano demolirlo tutto, poi noi facemmo obiezione e ce l’accettarono. E così hanno demolito solo la parte bassa del complesso, effettivamente danneggiata. La parte alta invece è rimasta, e sta benissimo, anche se è ancora disabitata poiché le famiglie lì sono state trasferite ai progetti C.A.S.E. Delle famiglie che stavano invece dall’altra parte, dove le case non hanno subito danni, quasi nessuno ha accettato di essere trasferito ai progetti C.A.S.E. Dicevano, giustamente, ci siamo fatti i lavori, abbiamo rinnovato, c’abbiamo i mobili, stiamo benissimo, non se ne parla. Solo due famiglie hanno accettato, tra cui il suocero dell’attuale sindaco. Io dopo l’ordinanza di sgombero feci immediatamente un’obiezione tecnica, e riuscimmo a stoppare tutto già all’epoca. Con la nuova giunta pensavamo cambiassero le cose, perché quando facevamo rumore contro l’altra giunta gli andava bene. Poi sono arrivati loro e ora vogliono fare le stesse cose, gli interessa recuperarsi questo finanziamento di tredici milioni e basta. E quindi ripartono di nuovo con questa ordinanza di sgombero. Noi allora siamo andati tutti in consiglio comunale per contestargli questa cosa, e il sindaco se ne esce con “Le case sono mie, le gestisco io”. Le gestisci tu? Tu non gestisci niente. Tu sei un gestore protempore e devi fare l’interesse pubblico e le tue azioni devono essere motivate. Altrimenti per queste case classificate A, B, e C il comune è inadempiente dal 2009, doveva fare degli interventi entro settembre 2009 e non li ha fatti, se li sono fatti i cittadini. Andate a vedere se stanno a posto, ma non potete inventarvi che sono inabitabili a quasi 10 anni di distanza. Poi c’è stata anche la questione degli affitti. Per un periodo con il vecchio sindaco, non essendo intervenuto, non avendo fatto la riqualificazione, per cui il comune poteva prendere 10 mila euro per alloggio come classificazione A per riparare i danni lievi, avendolo fatto fare tutto agli abitanti, forse in considerazione di questo fatto non ha preteso alla buona gli affitti. Quando sono andato io e ho visto che però non c’era un atto o una delibera ho detto loro di riprendere subito a pagare gli affitti di prima e rimettersi in regola. E loro per diversi mesi hanno ripreso a pagare. Poi è successo quello che è successo e hanno smesso di pagare. Ora vorremmo riprendere a pagare, ma se il comune la smettesse di torturare questa gente. Che poi gli sono arrivati anche gli affitti del piano C.A.S.E. che loro non avevano accettato, cioè loro non solo non si erano trasferiti, ma non avevano mai firmato niente, neanche una carta. Era un modo per condizionarli, per spaventarli. Poi con le scosse di Amatrice ripresero la palla al balzo, ovviamente non ci fu nessun danno alle case popolari a San Gregorio, ma fecero fare un giro a dei tecnici che giustamente non riuscirono a scrivere niente. Dissero solo che era peggiorato lo stato di quello che era già classificato E, lo stabile sui pilotis che poi come ti ho detto infatti hanno abbattuto. E noi ci proponemmo anzi di fare l’intervento insieme, per riqualificare il quartiere. Poi se ne sono usciti che il problema igienico era un fatto di fognature, perché la rete fognaria non è stata fatta bene in pendenza e quindi c’è una pompa che probabilmente ora è sottodimensionata. E quella effettivamente andrebbe cambiata o rifatto l’impianto fognario. Ma tutto questo è completamente esterno e si potrebbe fare senza sgombrare gli abitanti. Preoccupatevi piuttosto di dove sta il bar, il forno, e quel centro commerciale a tutti gli effetti. Quello è tutto abusivo, con tanto di muri spaccati che stanno per crollare. Poi ci hanno fatto questa stazione del bus/metro di fronte, e ci vorrebbe un sovrappasso per non farsi ammazzare quando si attraversa la strada che è a scorrimento veloce. Gli abbiamo detto fate questo, e poi abbiamo presentato una serie di proposte alternative per la riqualifica. Un giardinetto, una palestra pluriuso che servirebbe pure alla squadra locale, i pannelli solari, un parco per il tratturo urbano(in urbanistica un tracciato per il fluire e la continuità degli spazi pubblici), ma non serve altro. Comunque visto che non ci stanno a sentire noi abbiamo fatto resistenza. Abbiamo fatto i lavori, abbiamo sanato degli spazi vuoti che la gente ha trasformato in garage. Prima del terremoto erano questi grandi spazi vuoti che erano adibiti a posto auto, e non solo accumulavano sporcizia ma poi facevano condensa sul soffitto, che corrispondeva al pavimento della stanza sopra. E gli abitanti allora li hanno tamponati con questo materiale leggero, e io ho fatto mettere anche la rete di rinforzo e la porta basculante. Ti faccio vedere le foto in ufficio. Comunque il comune prende atto di questa cosa, tergiversa, e alla fine ci mandano la diffida a demolire l’abuso. E quindi non è più ordinanza di sgombro ma di demolizione dell’abuso. E allora abbiamo fatto domanda di sanatoria. E nella domanda spiego che in realtà noi il comune lo abbiamo arricchito, perché erano dei posti macchina e adesso li abbiamo fatti diventare dei garage, aumentando il valore del manufatto a vantaggio del comune. Allora ci scrivono una lettera dicendoci che non c’è l’assenso del comune che è proprietaria, che è vero. Ai sensi della legge tu responsabile dell’abuso puoi proporre la sanatoria ma ti serve l’assenso del proprietario giustamente. E questa adesso è la situazione. Noi l’assenso del proprietario l’abbiamo chiesto»
A San Gregorio parliamo anche con Errico, uno dei residenti del complesso.
«Non sono solo gli affitti fittizi che ci hanno mandato di progetti C.A.S.E che non abbiamo mai occupato e per cui non abbiamo firmato niente. Poi telefonate, raccomandate, per due anni. Sono venuti con la polizia, con gli operai del comune, che ci volevano mandare fuori. Sono venuti che volevano chiudere queste prime due case che erano vuote, pensavano che c’intimorivano e ce ne andavamo da soli. Sono venuti che ci volevano cacciare fuori con l’ente dell’Enel, che ci venivano a tagliare le utenze per sbatterci fuori. È venuto questo messo comunale a dirci che sarebbero venuti in forza e avrebbero fatto lo sfratto coatto. Ma noi siamo rimasti fermi a fare resistenza, a combattere. Sono venuti a minacciarci in tutti i modi. Sono due anni che ci torturano. Poi per fortuna un consigliere comunale ha fatto un’interrogazione e ha messo all’attenzione cosa stava succedendo. E per ora hanno bloccato questa fantomatica ordinanza di sgombro. Per incolumità nostra dicevano. Ma se c’era l’incolumità penso che tu dopo poco mi vieni a tirare fuori, non ti fai sentire dopo 8 anni. Allora questo pericolo era inesistente. Qua dicono che vogliono fare riqualificazione sociale. Ora io sarò ignorante, ma riqualificare vuol dire una cosa, ristrutturare vuol dire un’altra, ricostruire è ancora un’altra cosa. Riqualificare si presume che vuoi riqualificare gli spazi esterni, le aree verdi, vuoi fare una manutenzione ordinaria che qui non l’hai mai fatta, o un bel murales che a me piacerebbe tanto, però poi allo stesso tempo mi dici che me ne devo andare e vuoi demolire tutto. Che poi perché vogliono demolire tutto, perché non mi dici che devi fare, perché non cerchi un compromesso con il cittadino? Non sono chiari. Che poi ci vogliono prendere e sbattere nelle “capanne”. Perché quei progetti C.A.S.E e M.A.P sono capanne in mezzo al nulla. La maggior parte so marce, ogni tre quattro mesi esce una struttura che la devono evacuare e la dichiarano inagibile che la devono abbattere. E così ti sbattono là nelle capanne, non si sa per quanto, può darsi pure a vita. Che poi questo è un altro paradosso, tu vieni e mi vuoi cacciare con la forza privandomi di tutti i miei beni che uno nel tempo si è comprato, e non mi dai neanche il modo di portarmi la mia roba, che uno quella c’ha. Che nei progetti C.A.S.E. e nei M.A.P. non c’è neanche un deposito o un garage. E io con la mia roba che devo fare? La devo lasciare qua? Devo prendere i panni e me ne devo andare? Il terremoto, l’emergenza, è finita 10 anni fa. Ormai il sistema non è che marcio, è incancrenito fino al midollo, è solo una macchinazione, tutto per poter accedere ai fondi della ricostruzione, per poi questi fondi chissà dove dirottarli. Ormai è tutto un business, appena succede una calamità naturale ci si tuffano.»
Sono passati dieci anni dal terremoto, la ricostruzione procede in maniera confusa, a macchia di leopardo, dimenticandosi spesso di paesi, frazioni, e soprattutto delle persone. E così qui ognuno cerca di ritagliarsi un piccolo angolo in questo strano mondo caotico fermo tra staticità e ricostruzione. Un luogo da chiamare proprio. Una Zona Nostra.