Sono le 3.36 del 24 agosto 2016 e un terremoto di magnitudo 6.0 della scala Richter stravolge il Centro Italia, portandolo alla ribalta della cronaca nazionale. Da quel momento in poi la sequenza sismica non si fermerà fino al gennaio del 2017, distruggendo ciò che era faticosamente rimasto in piedi.
Secondo i bollettini ufficiali, aggiornati di volta in volta da Croce Rossa e Protezione civile, saranno 300 i morti e circa 30 mila gli sfollati tra Marche, Abruzzo, Lazio e Umbria. Per i sopravvissuti, marchiati dal peccato originale di avercela fatta, nulla sarà più come prima. Vittime di un “dopo” vissuto come “eterno durante”, saranno ridotti a far da spalla in una commedia all’italiana in tinte noir interpretata alla perfezione da politici rampanti di ogni estrazione e grado, istituzioni a tutti i livelli, enti ed imprenditori. Fin quando, almeno, un cronista coraggioso non restituirà loro un volto, un nome, una storia.
Dopo. Viaggio al termine del cratere di Mario Di Vito – edito in formato digitale da Lo Stato delle Cose e in libreria per Poiesis Editrice – è la narrazione esemplare di un terremoto che non ha un nome, ma ha una storia. O meglio, delle storie. Tutte quelle che lui ha raccolto nell’arco di due anni. Tutte quelle ancora da scrivere.
NEL CRATERE IL TEMPO SI È FERMATO
«Sono passati quasi mille giorni dalla prima scossa di terremoto e non è cambiato praticamente nulla nel cratere», spiega l’autore di Dopo, il giornalista Mario Di Vito. «Le macerie sono ancora per le strade, le persone sono ancora senza casa. Per fortuna l’odissea di chi è stato costretto ad andare a vivere negli alberghi della costa adriatica è finita quasi per tutti. Quasi perché ancora ci sono decine di persone costrette ad andare avanti in questo limbo.»
Di Vito, coautore insieme al regista Marco Di Battista di un documentario dal titolo Vista mare obbligatoria, sull’esilio forzato degli sfollati del terremoto sulla costa Adriatica, da quell’agosto del 2016 non ha mai smesso di occuparsi del “suo” Centro Italia. Raccontando sulle pagine de il Manifesto la cronaca pungente di un terremoto di provincia di cui oggi, a riflettori spenti, pare ci si sia dimenticati. Mentre i sopravvissuti continuano a districarsi, come prigionieri comuni, in una emergenza perenne. Qualcuno di loro, con ogni probabilità, finirà i suoi giorni in una casetta di legno. Qualcun altro, invece, imbrigliato nei paradossi burocratici, a quel modulo abitativo provvisorio neppure avrà diritto.
«Il principale problema del cratere», prosegue Di Vito, «è che manca la volontà politica di riportare la vita sull’Appennino. In questo senso né i governi di centrosinistra né l’attuale leghista-pentastellato sembrano avere idee diverse. Non si muove nulla e, al netto di tanti annunci, la ricostruzione non è mai cominciata davvero. C’è chi dubita, a questo punto, che comincerà mai. È la “strategia dell’abbandono” di cui tanto si parla. Un insieme di pratiche e di politiche che porteranno alla morte del cuore dell’Italia. Il mio Dopo cerca di raccontare tutto questo, tra reportage, inchiesta e racconto personale. L’idea di scrivere questo libro nasce per merito di Antonio Di Giacomo, giornalista di Repubblica e curatore de Lo Stato delle Cose. È grazie a lui che ho trovato il modo di mettere insieme pensieri e parole. E, soprattutto, sono riuscito a cominciare e finire questo libro.»
ANCHE LE INCHIESTE PROCEDONO A RILENTO
Il 12 giugno scorso la Guardia di finanza ha arrestato un dipendente della Regione Marche, Stefano Mircoli, e un’imprenditrice, Cristina Perotti, nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Ascoli Piceno sulla gestione e smaltimento delle macerie post-sisma. È l’ultima, in ordine di tempo, di una serie di inchieste giudiziarie sviluppatesi all’indomani del terremoto del centro Italia. Secondo i pm il funzionario pubblico in questione avrebbe condizionato le procedure favorendo gli interessi della società privata, la Dimensione scavi di cui è titolare proprio la Perrotti. Le ipotesi di reato contestate sono corruzione e rivelazione di segreti d’ufficio. Ipotesi che, al momento, sono costate agli indagati la misura di custodia cautelare in carcere.
«Vedremo che piega prenderà l’inchiesta, se come pare è destinata ad allargarsi oppure se siano in presenza di un caso circoscritto», commenta Di Vito. «Fatto sta che nel cratere anche le inchieste giudiziarie procedono a rilento, tra qualche segnalazione dell’Anac di Cantone e qualche polemica.»
Ma, a prescindere dalle inchieste giudiziarie, l’adeguamento sismico di cui tanto si parla resta una macchia indelebile nella coscienza pubblica. Il buco nero di una programmazione che sulle aree fragili d’Italia non c’è mai stata. E, probabilmente, mai ci sarà.
GLI ANTICORPI ALLA STRATEGIA DELL’ABBANDONO
Borgo di Arquata, Piedilama e Pretare sono cadute a pezzi. Pescara del Tronto non sarà mai più ricostruita. Arquata del Tronto stenta ad esistere. Ad Amatrice e Accumoli tutto pare tratteggiato da un’inevitabile zona rossa. Campotosto, già sfregiata dal terremoto de L’Aquila, è il ricordo di se stessa. Castelluccio di Norcia, lì dove gli abitanti sono stati sfollati con l’elicottero, giace come la vittima di un bombardamento. Sono passati quasi tre anni dal terremoto, ma qui il tempo è di pietra e di ghiaccio. Di pietra, come quelle degli antichi borghi venuti giù. Di ghiaccio, come quello che nell’inverno a cavallo tra il 2016 e il 2017 pareva volesse seppellire ogni cosa. Comprese le speranze dei sopravvissuti. A cui, troppo spesso, è stata negata persino la verità.
Eppure, dei terremotati ha parlato quel pezzo di politica che continua a giocare con le loro aspettative da quasi mille giorni. Talvolta agitando lo spettro dell’Europa con la sua burocrazia canaglia. Talaltra, quello de “l’uomo nero” importato direttamente dall’Africa coi suoi telefonini hi-tech per rubare i 35 euro al giorno da destinare ai sopravvissuti del centro Italia. Si è fatto e detto di tutto pur di giustificare l’ingiustificabile. Pur di utilizzare, cioè, il cratere come un termometro politico del consenso. Ma la realtà, a volerla analizzare, è che il terremoto ha solo accelerato il tracollo di un’intera area del nostro Paese, portando alla luce macerie che in fondo c’erano già. La “strategia dell’abbandono” delle aree interne era già in atto ben prima del 2016. Quando si decise, a tavolino, che le periferie fossero destinate ad assumere un ruolo da controfigura nella provincia italica dell’Impero. Qui l’assenza di progettualità, di giovani, di nuovi spunti persino alla disillusione, era già la cifra di tutto, insieme all’improvvisazione.
Eppure è proprio qui che il collettivo “Terre in moto Marche”, definito dall’autore spin-off del sisma senza nome, ha deciso di restare. E di resistere. Come, prima di loro, aveva fatto solo il terremoto. L’unico a non essersi mai dimenticato dei sopravvissuti. «Si lotta», scrive Mario Di Vito in uno degli ultimi passaggi di Dopo. «Non per la pace, vera o presunta che sia, ma per vivere. E vivere vuol dire sapersi contraddire. Sull’Appennino lo sanno. Per questo l’abbandono non vincerà. E, dunque, sull’Appennino si resiste. Se ancora serve a qualcosa.»