Periodico indipendente su Ambiente, Sud e Mediterraneo / Fondato il 23 dicembre 2015
 

“Io su una scoria non ci dormirei mai…”

L’intervista a Roberto Mezzanotte – esperto di nucleare e radioprotezione, attualmente collaboratore della Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti radioattivi – nasce per interrompere questa prassi della segretezza. Per fare chiarezza su un tema spinoso che, di qui a qualche mese, ci riguarderà molto da vicino.

Sul deposito unico nazionale per i rifiuti radioattivi sembra calato il silenzio. Alle poche e scarne campagne pubblicitarie messe in campo dalla Sogin, la società che dovrà progettare e gestire il sito unico ha fatto seguito un mutismo istituzionale. Lo stesso vale per il decommissioning delle ex centrali nucleari, in ballo dall’estate del 2015, e la mappatura delle aree idonee a ospitare il deposito per i rifiuti radioattivi nazionale, ovvero la Cnapi (Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee). Ma del processo pubblico e trasparente che avrebbe dovuto accompagnare la procedura non si parla più.

Dottor Mezzanotte, sappiamo che il complesso processo che porterà all’individuazione del deposito unico nazionale è composto di più fasi: dall’individuazione delle aree potenzialmente idonee, all’indicazione dei siti da sottoporre a indagine, fino ad arrivare alla caratterizzazione tecnica di dettaglio delle aree prescelte. Ma da qualche tempo a questa parte sembra che sulla questione del deposito unico sia volontariamente calato il silenzio. Ecco perché le chiedo: a che punto siamo? È pronta la mappa delle aree potenzialmente idonee?
Sul deposito unico siamo al punto zero. La procedura che lei ha sinteticamente descritto è stata fissata da un decreto legislativo del 2010. Il testo di legge prevede che una volta stilata una mappatura delle aree potenzialmente idonee si apra una fase di discussione tecnica prima di passare alla carta definitiva. A quel punto inizia una sorta di trattativa, o meglio interlocuzione con Regioni ed Enti locali per stabilire insieme, senza arrivare a imposizioni, quali aree possano essere interessate a ospitare il deposito unico tenendo conto del fatto che, ovviamente, ci sono dei vantaggi, delle contropartite per le comunità locali. La procedura del 2010 prevede che il primissimo passo debba essere la definizione di criteri per l’individuazione del sito da parte di un Ente di controllo.

Stiamo parlando dei 28 criteri, 15 di esclusione e 13 di approfondimento, redatti dall’Ispra?
Esatto. Ma il decreto del 2010 non ha affatto stabilito che a redigere quei 28 criteri dovesse essere l’Ispra, anzi. I criteri dovevano essere fissati da un nuovo soggetto, istituito appositamente per la materia nucleare. Sto parlando dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, ente costituito in previsione di un rilancio dell’attività nucleare in Italia. Quando poi si è compreso che nel nostro Paese non c’era assolutamente nulla da rilanciare, specie all’indomani dell’incidente giapponese di Fukushima, l’Agenzia per la sicurezza nucleare è stata cancellata. Solo a quel punto l’Ispra ha cominciato a lavorare ai criteri per l’individuazione del deposito unico. E dal 2010, anno del decreto, siamo arrivati all’estate del 2014. Quattro anni persi solo per stabilire chi dovesse redigere i criteri.

Poi su quei criteri è intervenuta la Sogin…
Perfetto. La Sogin, che deve progettare, realizzare e poi gestire questo deposito unico, e che poi, come lei sa, è la stessa società che sta gestendo il decommissioning degli impianti nucleari italiani, una volta ottenuti questi criteri ha iniziato a lavorare sulla sua proposta di carta delle aree potenzialmente idonee, in gergo denominata Cnapi. Nel gennaio 2015, entro i tempi che la procedura le assegnava, la Sogin ha consegnato e trasmesso all’Ispra e ai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico il suo elaborato. Le sto parlando di documenti assolutamente riservati, che nessuno ha avuto l’opportunità di visionare al di fuori di Sogin, Ispra e dei due ministeri competenti. A quel punto l’Ispra aveva 60 giorni per verificare che fossero stati rispettati i 28 criteri. Evidentemente questo ente deve aver sollevato qualche obiezione perché nell’aprile 2015 i due ministeri hanno richiesto ulteriori approfondimenti alla Sogin. Nel giugno 2015 quest’ultima ha consegnato nuovamente la Cnapi e l’Ispra, nel luglio dello stesso anno, ultimate le sue verifiche ha dichiarato pubblicamente di non aver più rilievi da fare. La procedura prevede che i due ministeri, di concerto tra loro, abbiano un mese di tempo per la pubblicazione della Cnapi. Quindi la pubblicazione era attesa già per il settembre 2015, ottobre al massimo. E invece…

E invece?
La Sogin, se ricorda, in quel periodo ha cominciato a far passare alla TV degli spot pubblicitari che avrebbero dovuto aiutare in una corretta e più semplice recezione del deposito unico da parte del pubblico. Ma sono iniziati a passare i mesi. E della Cnapi nessuna notizia. Fino a oggi. Sappiamo che esiste da agosto dello scorso anno. Ma nessuno l’ha mai vista.

Come si spiega questi ritardi?
Guardi, io le dico cosa è ufficialmente accaduto. Poi se lei vuol dire che questa Cnapi sarà comunque un documento scomodo che dovrà essere gestito, insomma, sicuramente ci saranno reazioni da parte delle Regioni che vedranno i propri territori come potenzialmente idonei a ospitare questa struttura.

Beh, questo è sicuro. Specie dopo quanto si è verificato a Scanzano Jonico nel 2003.
La vicenda di Scanzano è diversa. Addirittura in quel caso era stato un decreto legge a definire la mappatura del sito. Preferirei non parlare di Scanzano Jonico. Per me è da considerarsi un vero e proprio incidente di percorso.

A Scanzano Jonico la questione è stata gestita male fin dall’inizio, e non soltanto per come è stato scelto il sito in cui ubicare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi. Allora, come oggi, a mancare è la tanto decantata trasparenza e partecipazione dei cittadini a una scelta che li riguarderà molto da vicino. E poi non crede che l’Italia stia accumulando un po’ troppi ritardi sul nucleare? Il decomissioning delle ex centrali è fermo al palo, sul deposito unico, stando a quel che lei dice, siamo al punto zero, e il Programma nazionale non è ancora pronto. Perché?
Sì, il ritardo nell’autorizzare la pubblicazione di una carta già pronta da un anno non è l’unico. Il Programma nazionale è un documento previsto da una direttiva europea sulla gestione dei rifiuti radioattivi. L’Europa ha imposto che ogni Stato membro dell’Unione debba redigere una programmazione coerente sui rifiuti radioattivi il cui contenuto doveva essere trasmesso, entro il 23 agosto 2015, alla Commissione europea. Nell’agosto 2015 sarebbero dovute succedere due cose: l’autorizzazione alla pubblicazione della Cnapi e la trasmissione a Bruxelles del Programma nazionale. L’Italia non ha fatto nessuna delle due. Le ragioni non le conosco.

E l’Europa come ha gestito il ritardo italiano?
Nell’aprile 2016 ha aperto una procedura d’infrazione a carico dell’Italia. Attenzione: l’Europa non ha sanzionato l’Italia perché non ha ancora predisposto e realizzato il deposito unico, come pure molti sostengono. L’ha fatto perché l’Italia non ha ancora presentato il Programma nazionale, così come la direttiva imponeva. Le due questioni, tuttavia, si intrecciano. Circa un mese fa, infatti, il ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha dichiarato che la pubblicazione della Cnapi sarà successiva alla definizione del Programma nazionale, in modo tale che i cittadini possano essere maggiormente consapevoli della tematica. Giacché il Programma nazionale dovrebbe essere pubblicato, senza ulteriori indugi, attorno alla metà del prossimo anno, l’autorizzazione alla pubblicazione della Cnapi realisticamente verrò rilasciata non prima del terzo trimestre del 2017.

Il rapporto preliminare sul nucleare pubblicato sul sito del ministero dell’Ambiente, lo scorso aprile, è un documento propedeutico al Programma nazionale?
Quel rapporto è un documento preliminare sulla base del quale verrà effettuata la Valutazione ambientale strategica (Vas) del Programma nazionale. È in quel testo che vengono definiti i contenuti del rapporto propedeutico alla Vas. Siamo dunque in una fase ancora iniziale della procedura, che va ultimata prima della definizione del Programma nazionale. Tenuto conto dei tempi relativi al corretto espletamento della procedura, ecco perché il Programma verosimilmente non potrà essere pubblicato prima dell’estate 2017. Ed ecco perché la Cnapi, di conseguenza, non potrà che essere pubblicata attorno all’autunno dello stesso anno. Ovviamente, se tutto va bene.

Cosa accadrà dopo la pubblicazione della Cnapi?
A quel punto la Sogin dovrà organizzare, predisporre e tenere, entro 120 giorni dalla pubblicazione, un seminario nazionale per presentare il lavoro svolto in maniera tale da aprire ufficialmente la discussione pubblica sulle proposte di localizzazione del deposito unico.

Proviamo a stilare un computo dei rifiuti radioattivi sul territorio nazionale da destinare al deposito unico. Anche perché, al di là della mancata trasparenza, forse sono state anche le banalizzazioni sulla tematica della gestione dei rifiuti radioattivi a scatenare le polemiche da parte dell’opinione pubblica. Per dirla con Veronesi, lei ci dormirebbe tranquillamente su una scoria radioattiva?
Ha perfettamente ragione, ci sono persone che vogliono banalizzare il problema dei rifiuti radioattivi. Guardi, io su una scoria non ci dormirei mai. I rifiuti radioattivi devono essere gestiti in maniera ottimale per poter stare tranquilli. Ci sono tecniche già sperimentate in altri Paesi riguardo alla gestione di un deposito nazionale. Personalmente collaboro con la Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti radioattivi, e posso dirle che visitando i depositi di Francia, Spagna e Olanda abbiamo potuto constatare che si tratta di opere che mettono in assoluta sicurezza le scorie. Abiterei nei pressi di un deposito del genere in assoluta tranquillità. C’è poi chi definisce il deposito unico come una “discarica nazionale di scorie”. Parliamo di un’opera che non è nemmeno lontanamente assimilabile a una discarica di rifiuti urbani. Il deposito sarà un impianto di tipo industriale nel quale i rifiuti radioattivi saranno preventivamente messi in sicurezza in parallelepipedi di cemento armato modulari. Le scorie vengono inserite all’interno di fusti di cemento che a loro volta vengono chiusi in quei parallelepipedi che le dicevo, coperti poi ancora di altro cemento. In pratica attorno alle scorie sarà creato una sorta di bunker di cemento armato.

Restiamo sui rifiuti. L’Ispra sostiene che il quantitativo di rifiuti radioattivi da destinare al deposito unico ammonta a circa 90 mila metri cubi, tra cui vanno distinti quelli a bassa e media attività, che vengono sottoposti a un determinato processo di condizionamento, da quelli ad alta attività.
Partiamo dal presupposto che i rifiuti radioattivi crescono di qualche centinaio di metri cubi all’anno per due ordini di ragione: innanzitutto determinati tipi di materiale radioattivo vengono comunemente utilizzati negli ospedali, andando a costituire il cosiddetto rifiuto ospedaliero. In secondo luogo, fino a quando le ex centrali nucleari italiane non saranno smantellate, il mantenerle in sicurezza continua a far produrre rifiuti radioattivi. Siamo già alla soglia dei 30 mila metri cubi di rifiuti. Poi dobbiamo pensare a quelli che si formeranno quando l’attività di decommissioning sarà più avanzata. Gli ex impianti nucleari vanno smantellati ed è chiaro che i materiali di risulta radioattivi vadano trattati come veri e propri rifiuti. La stima certo non può essere precisa al metro cubo, ma parliamo di circa 40 mila metri cubi di rifiuti radioattivi derivati dal solo smantellamento delle centrali. Infine ci sono, non in termini di volume ma di radioattività in essi contenuta, i rifiuti che torneranno in Italia da Inghilterra e Francia: si tratta del combustibile irraggiato dalle ex centrali da sottoporre a riprocessamento. In pratica gli impianti ad hoc siti in Francia e Inghilterra dovranno separare l’uranio e il plutonio riutilizzabili per ulteriori processi energetici dai materiali di scarto, le cosiddette scorie. In questo caso si tratta di rifiuti ad altissima attività, ben più pericolosi delle categorie precedenti. Sono circa 1000 metri cubi di rifiuti radioattivi che vanno gestiti in maniera differente rispetto ai precedenti.

Mi scusi, ma all’impianto di Sellafield in Inghilterra non erano stati spediti circa 6 mila metri cubi di combustibile irraggiato?
È un dato superato. Gli inglesi hanno offerto uno scambio che consente di sostituire, dietro un congruo corrispettivo, gli iniziali 6 mila metri cubi inviati dall’Italia con pochi metri cubi di rifiuti concentrati. In verità la proposta è stata fatta anche ad altri Paesi, non solo all’Italia. In base agli accordi ritorneranno nel nostro Paese circa 16 metri cubi di rifiuti radioattivi ad altissima attività condizionati in vetro. Oltre ai 16 metri cubi di cui le ho parlato, ne prendiamo due in più andando a sostituire i 6 mila di partenza. Può essere conveniente perché in questo modo, ad esempio, si annullano o riducono di moltissimo tutti i costi di trasporto e si attenua contestualmente la problematica relativa allo smaltimento di quei 6 mila metri cubi, una quota comunque molto rappresentativa dell’inventario nazionale. Inoltre questi due metri cubi in più saranno stoccati negli stessi contenitori che dovranno ospitare i 16 metri cubi che tornano in Italia. I volumi esterni dei contenitori non cambiano. Risultato? La Sogin è stata autorizzata a fare questo scambio, non credo abbia già definito formalmente la cosa, ma sembra che ormai si vada in questa direzione. Prenderemo due metri cubi in più di rifiuti radioattivi ad altissima attività, con tutta l’attività che equivale praticamente a quella dei 6 mila metri cubi iniziali. Torna in Italia un concentrato di radioattività, in buona sostanza.

Come si arriva al totale dei 90 mila metri cubi di rifiuti radioattivi stimati dall’Ispra?
Si tiene conto anche della continua produzione di rifiuti radioattivi nel corso dei prossimi cinquant’anni. I rifiuti ospedalieri non possono essere sostituiti in tempi brevi, dunque saranno ancora prodotti per molto tempo. Il deposito nazionale viene dimensionato su 90 mila metri cubi, di cui 75 mila a bassa e media attività e 15 mila ad alta attività. Il vertice massimo di questa attività è costituito proprio dai rifiuti radioattivi di ritorno dall’estero.

Tuttavia ci sono anche 235 tonnellate di combustibile nucleare irraggiato non ancora sottoposto a riprocessamento. È quello inviato all’impianto di La Hague in Francia?
Sì, esatto. Le 235 tonnellate di cui parla provengono soprattutto dall’impianto di Caorso (180 tonnellate) e dal deposito Avogadro di Saluggia. Nel 2006, il ministro allo Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani, e il suo corrispondente francese hanno sottoscritto un accordo affinché quelle 235 tonnellate venissero spedite in Francia per il riprocessamento, e dal 2009 sono cominciate effettivamente le spedizioni. È partito quasi tutto, salvo una quindicina di tonnellate ancora stoccate temporaneamente nel deposito Avogadro.

Come viene effettuato il trasporto del combustibile irraggiato?
Questa è un’attività che qui in Italia, un Paese in cui di nucleare ormai è rimasto ben poco, sembra una cosa eccezionale. Ma in realtà in molti Paesi è una faccenda ordinaria. Esistono contenitori particolari in grado di trasportare al massimo due tonnellate di combustibile. Per darle un’idea, per 2 sole tonnellate di combustibile irraggiato viene utilizzato un contenitore che ne pesa 70. Le operazioni di solito vengono fatte sott’acqua, nelle apposite piscine degli impianti, per evitare che il combustibile venga a contatto con l’aria. Il trasporto, sia ferroviario che su strada, è regolamentato dalle norme internazionale dell’International atomic energy agency (Iaea). Ovviamente viene utilizzata una tecnologia raffinata per svolgere tutte le operazioni in totale sicurezza. Ma una volta entrati nel meccanismo, direi che è quasi banale. L’Italia ha utilizzato qualcosa come 1600 tonnellate di combustibile irraggiato spedite tutte all’estero per il riprocessamento, tranne quel piccolo residuo del deposito di Avogadro. E poi c’è un ulteriore residuo di combustibile irraggiato che non partirà affatto. Si tratta di un paio di tonnellate del particolarissimo combustibile del ciclo uranio- torio stoccato nell’impianto di Rotondella della Trisaia. È una tipologia molto particolare, non riprocessabile negli impianti in cui si riprocessano
i combustibili comunemente utilizzati nelle centrali nucleari. Quel combustibile è destinato a restare lì dov’è.

Ma se cambia la tipologia di rifiuto radioattivo, non cambia di conseguenza anche la tipologia di impianto?
È così. Per i rifiuti a bassa e media attività il deposito – definito ingegneristico – finisce con l’essere una sorta di parallelepipedo di cemento armato. Una volta costruito il bunker di cemento armato di cui le ho parlato, viene effettuata un’ulteriore copertura in cemento, viene impermeabilizzato e dall’esterno si vede una sorta di collinetta sulla quale si può far crescere persino l’erba. Non si tratta di impianti prototipi, ne esistono diversi modelli ed esemplari in tutto il mondo. I rifiuti a bassa e media attività possono essere trattati così perché dopo circa 300 anni non sono più radioattivi. La struttura è progettata per durare a lungo, e ne resta una tracciabilità. I rifiuti ad alta attività, invece, non decadono in alcune centinaia di anni. Alcuni decadono dopo migliaia o una decina di migliaia, oppure ancora centinaia di migliaia di anni. Non li si può stoccare in una struttura artificiale ingegneristica perché nessun impianto potrebbe dare una simile garanzia di durata.

Quindi qual è la soluzione?
La soluzione prospettata è quella del deposito geologico. Si ipotizza di stoccare questi rifiuti a un migliaio di metri di profondità sotto terra. È la stessa soluzione di Scanzano Jonico, tanto per intenderci, solo che lì volevano stoccarci indifferentemente rifiuti a bassa, media e alta attività. Ma Scanzano, le ripeto, è stato un incidente di percorso. Oggi come oggi l’unica soluzione sembrerebbe essere quella del deposito geologico: una formazione geologica, cioè, che dia garanzie di stabilità e sia in grado di tenere in isolamento i rifiuti per il tempo necessario. Ci sono delle particolari formazioni di argille, sali o miniere di sale, o ancora particolari graniti che potrebbero garantire questa affidabilità. Però non tutti nel mondo scientifico sono convinti che una soluzione del genere sia valida in termini assoluti. Il dibattito è ancora aperto, la discussione è continua. Mentre ormai è pacifica l’affidabilità di un deposito ingegneristico, lo stesso discorso non vale per quello geologico.

Il nostro deposito unico nazionale sarà un impianto di tipo ingegneristico, adatto a ospitare i 75 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività di cui mi ha parlato. E i restanti 15 mila come saranno gestiti?
Per gli altri 15mila dovremo aspettare una soluzione come quella del sito geologico. Ma come le dicevo ci sono almeno due problemi: innanzitutto non sono tutti d’accordo. E poi per qualificare un sito geologico ci voglio almeno 20-30 anni. Noi questi tempi non li abbiamo, per il semplice motivo che il combustibile spedito all’estero per essere riprocessato tornerà in Italia entro il 2025. Abbiamo adottato, quindi, una soluzione ad interim. Una risposta temporanea cioè, ma di lungo periodo. Costruiremo un deposito superficiale ingegneristico in grado di mantenere questi rifiuti ad alta attività almeno per i prossimi 100 anni. Sfrutteremo questo tempo per continuare a studiare il problema e trovare così una soluzione congrua. Ad esempio si stanno facendo delle ricerche per trasformare i radionuclidi dalla vita più lunga in radionuclidi in grado di decadere entro i 300 anni. Le prospettive sono diverse. Il deposito unico, ovviamente, sarà il sito prescelto per stoccare momentaneamente anche i rifiuti ad alta attività. Le soluzioni sono diverse da Paese a Paese. In Olanda esiste già un deposito di questo tipo, in Spagna ce n’è uno per lo smaltimento dei rifiuti a bassa e media attività in superficie mentre in un altro sito si sta realizzando un impianto per i rifiuti ad alta attività. Altri ancora hanno scelto invece il deposito geologico.

In tema di rifiuti, non si può fare a meno di notare una più marcata sensibilità dell’opinione pubblica rispetto a quelli radioattivi. Se spostiamo il discorso sui rifiuti industriali, o su quelli speciali pericolosi, la percezione cambia completamente. Molto spesso a torto. La domanda potrà sembrarle capziosa, ma le chiedo: quali sono i tempi di decadenza, se così si può definire, di un metallo pesante?
Sfonda una porta aperta. È chiaro: il rifiuto radioattivo può decadere in tempi brevi come in tempi lunghissimi. Ma alla fine decade. Se lei mi chiede in quanto tempo decadono i metalli pesanti, le rispondo che non decadono affatto. Un metallo pesante resta un metallo pesante. È vero che la percezione è molto diversa. Personalmente mi sono sempre occupato di nucleare. Sulla base della mia esperienza personale posso dirle che, anche se può sembrar strano, la cura che si mette sui rifiuti radioattivi è molto diversa rispetto a quella con cui sono gestiti i siti per rifiuti speciali pericolosi. Le offro dei numeri per fare i dovuti distinguo. Per il nucleare parliamo di un inventario complessivo di 90 mila metri cubi totali. Ogni anno in Italia si producono 10 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi. Le posso precisare quali sono i programmi per mettere in sicurezza i 90 mila metri cubi di rifiuti radioattivi. Programmi sui quali, come le ho detto, stiamo andando lentissimi. Ma se lei mi chiede dove vanno a finire i 10 milioni di tonnellate di rifiuti speciali stimati dall’Ispra, quali sono i programmi per lo smaltimento o le prospettive al riguardo, non glielo so dire. I numeri sono questi.

Un’ultima domanda: sulla base delle conoscenze e degli studi moderni, lei avrebbe mai avallato la scelta localizzativa di alcune delle ex centrali nucleari attive sul territorio nazionale?
Oggi siamo chiamati a gestire l’eredità lasciata dalle scelte fatte sul nucleare. La decisione di localizzare le centrali nucleari in prossimità di fonti d’acqua è stata, a suo tempo, funzionale alla produzione di energia elettrica. Ma per i rifiuti radioattivi, il discorso è inverso. La prossimità dell’acqua costituisce un pericolo. E tutte le ex centrali site sul territorio nazionale custodiscono i propri rifiuti radioattivi in attesa della creazione del deposito unico. Ecco perché il deposito serve. Ci sono stati impianti che hanno dato problemi, è vero. Se lei fa riferimento alla ex centrale del Garigliano, le dico che a parer mio ci sono impianti messi ben peggio. Penso al deposito Avogadro di Saluggia, lo stesso nel quale c’è ancora qualche tonnellata di combustibile non riprocessato. La Dora ha già inondato il sito diverse volte. L’Italia ha aderito al nucleare all’inizio degli anni Sessanta, mentre le prime procedure per disciplinare le autorizzazioni a costruire le centrali sono del 1964. La centrale del Garigliano e la gran parte dei siti nucleari italiani è stata localizzata prima che entrasse in vigore la legge. I criteri di scelta furono ben diversi.

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Autore:

Giornalista, caporedattrice del periodico Terre di frontiera. Specializzata in tematiche ambientali. Crede nel cambiamento e nella possibilità di ciascuno di contribuirvi.