Con la ricomposizione delle Camere, dopo le elezioni politiche di marzo, il deputato del Partito democratico, Enrico Borghi, ha ripresentato la fotocopia della legge n.394/1991, cosiddetta riforma in materia di aree protette.
Il deputato Enrico Borghi, piemontese, appena rieletto in Parlamento, nonché presidente dell’Unione nazionale dei comuni, comunità ed enti montani (Uncem), in tempi non sospetti, ha definito “castronerie” le critiche mosse al decreto “motosega” di riforma del Testo unico sulle foreste, accusando di “integralismo khomeinista l’ambientalismo conservatore”.
Oggi fa, invece, sapere di essere nuovamente intenzionato a sbloccare il provvedimento sui parchi, arenatosi – secondo il parlamentare – solo per problemi di bilancio nella scorsa legislatura. Non è chiaro se nella nuova versione della proposta di legge “Borghi” sia stata reinserita la possibilità di ricercare idrocarburi all’interno delle aree protette. Un tema caldo che provocò vivaci opposizioni, soprattutto in alcune regioni, come la Basilicata, interessate dalle attività petrolifere.
Questa volta, però, non ci saranno diversi sostenitori della riforma presenti nella precedente legislatura, come l’ex parlamentare Ermete Realacci, sempre del Partito democratico, escluso dalla competizione elettorale, così come altri parlamentari che in modo trasversale hanno sostenuto l’approvazione del provvedimento. Enrico Borghi dovrà quindi cercare il consenso alla propria proposta di legge.
Il reiterato obiettivo resterebbe sempre quello di fare piazza pulita della legge n.394/1991. Esso si fonda sul principio che i parchi nazionali dovranno autofinanziarsi per poter sopravvivere, accettando il ricatto delle “compensazioni ambientali”, alias finanziamenti, da parte dei privati (petrolieri, produttori di energia e di rifiuti).
La nuova legge “fotocopia” prevede che a gestire le aree protette dovranno essere manager privi di competenza naturalistica – parola assolutamente da bandire nei parchi – designati da un consiglio di amministrazione (ex direttivo del parco) composto prevalentemente da esponenti politici locali (anche da cacciatori e pescatori) nonostante le associazioni ambientaliste abbiano bocciato le presunte riforme proposte dai governi Renzi e Gentiloni per i parchi nazionali, tacciandole come pericolose e deleterie per il Belpaese e per la salvaguardia del territorio.
Mentre continua la querelle per la formazione del “nuovo” governo, il “vecchio” governo si appresterebbe, invece, a nominare direttori e presidenti dei parchi, dopo aver riaperto l’albo nazionale dei direttori e messo in stand by la gestione ordinaria di diverse aree protette italiane che hanno proceduto ad approvare i propri bilanci o le loro variazioni in una situazione di precarietà gestionale.
Infatti, numerosi risultano essere ancora i direttori in carica “facenti funzione” (alias personale ordinario in regime di proroga e/o in sostituzione, o vacatio), con consigli direttivi che non vengono convocati o, quando lo sono, risultano essere presieduti da vicepresidenti pro-tempore, in assenza di presidenti regolarmente nominati e legittimati nel proprio ruolo, dopo la scadenza dei presidenti precedenti.
Intanto si riaprono i termini per la presentazione delle candidature per le “terne” dei nominativi dei papabili al ruolo di direttori di parco, secondo le nuove norme emanate dal ministero dell’Ambiente.
Su questo status di precarietà nella gestione dei parchi, il ministro dell’ambiente pro-tempore, Gian Luca Galletti, non fa conoscere le proprie intenzioni circa l’opportunità di procedere ad un commissariamento dei parchi, che “sani” una situazione di precarietà, in attesa che il nuovo Parlamento inizi a lavorare e accenda i riflettori sui problemi reali e non approvi leggi “fotocopia”, nell’interesse dell’ambiente e dei cittadini italiani.